American Landscape

Viaggio nella fotografia americana di paesaggio

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26 min readOct 6, 2014

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Quando nel 1976 John Szarkowski presentò al mondo gli scatti colorati di William Eggleston, il mondo della fotografia reagì con sdegno e confusione. Quella mostra è unanimente considerata l’inizio dell’anno zero della fotografia a colori, da allora molte cose sono cambiate e grandi autori hanno utilizzato questa tecnica per esprimere la loro arte.

Tra questi non possiamo dimenticare Joel Sternfeld, che, ripercorrendo le orme dei grandi protagonisti della Street Photography, ha viaggiato per l’America riuscendo a cogliere, con la sua macchina fotografica, gli umori e le forme del paesaggio, muovendosi su quella linea non ben definita che caratterizza l’arte della fotografia contemporanea.

Joel Sternfeld

Nel 1978, Joel Sternfeld ha iniziato un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti, e, per otto anni, ha attraversato i 50 stati americani, registrando meticolosamente il modo di vivere e il paesaggio, con una macchina fotografica di grande formato. La sua indagine sul paesaggio e sulle persone che si muovono al suo interno ha portato alla serie American Prospects (1979–1983), mentre successisamente come In Passing Stranger (1987–2000) ha cercato di puntare l’obiettivo direttamente sulle persone, ritraendoli sempre dalla stessa distanza e con lo sguardo fisso sulla camera, ricordando per certi versi la grande opera di August Sander, cercando di raccontare le storie minime dei soggetti e il loro background culturale solo attraverso la messa in scena del ritratto.

Le successive indagini del paesaggio americano, hanno portato Sternfeld a scandagliare come William Eggleston il banale quotidiano delle aree urbane e rurali, cercando di carpire le differenze delle comunità che abitano a stretto contatto, le loro differenze e i disagi causati dalla convivenza, fino a descrivere gli effetti del tempo e delle stagioni e l’influenza che la natura ha sull’uomo.

A differenza però di Eggleston, di cui ha assimilato la propensione per i colori sobri e la messa in scena architettonica dell’immagine fotografica, nella quale si muovono i singoli elementi all’interno della cornice, creando così un movimento autonomo che rende l’immagine ancora più potente, Sternfeld ha cercato sempre di capire la complessità della società americana attraverso il malessere endemico dei gruppi meno fortunati, raccontando l’utopia della frontiera, senza però mai oltrepassarla.

Il Banale quotidiano

E proprio William Eggleston uno dei più importanti artisti contemporanei è considerato il pioniere della fotografia a colori. È stato lui, infatti, insieme ad un altro grande di quest’arte: Luigi Ghirri, a dare dignità alla fotografia a colori, che fino all’inizio degli anni ’70 era considerata esteticamente poco rilevante.

Luigi Ghirri | Lido di Spina

Rifiutando le tradizionali gerarchie dell’arte visuale, William Eggleston, considera che qualunque oggetto è degno di interesse. Il suo “occhio democratico” lo invita a fotografare tutto ciò che ci è familiare ma in una maniera totalmente inattesa.

Così ha rappresentato in modo emblematico la perdita di identità della città americana, frantumata da accadimenti assolutamente anonimi, dai quali il fotografo ricava immagini “banali” piene di silenzio, nostalgia, e rimandi verso altri mondi, costruiti da leggeri spostamenti dei punti di vista.

William Eggleston | Roys Motel and Police

Democratic Camera

La fotografia ripresenta, così, il territorio sempre in bilico tra la verità dei luoghi indagati e la visione/invenzione del fotografo. Eggleston con le sue fotografie non vuole stupire, non cerca a tutti i costi di sorprendere con costruzioni e forme particolari, ma cerca di registrare con l’obiettivo fotografico tutto ciò che indifferentemente si può cogliere dalla finestra di un’automobile o all’incrocio di una periferia. Ma, misurando perfettamente il paesaggio, attraverso tutti gli anonimi frammenti che lo compongono, la forma che registra diventa un’altra cosa, differendo da quello che vediamo, perché vi implica un ordine.

Nelle sue fotografie, la forma e l’oggetto sono così definiti simultaneamente e sono aggrovigliati inestricabilmente. Effettivamente, sono probabilmente la stessa cosa. O, se sono differenti, si potrebbe dire che l’oggetto della fotografia è il non relativo punto di partenza, ma, la relativa destinazione.

La fotografia che non fa rumore

La fotografia di William Eggleston, come l’ha definita Robert Adams, è un silenzio adeguato, una fotografia che non fa rumore, che non cerca effetti speciali, fatta di colori tenui, mai gridati, non adatta alle pagine patinate delle riviste, che ritrae un mondo qualunque, lontana dai lustrini e dalle luci abbaglianti delle città. Una fotografia periferica, che guarda alle periferie con l’occhio democratico di chi sa apprezzare i dettagli e le piccole cose, dove i gesti e gli oggetti comuni vengono portati in primo piano, mostrandoli cosi come sono, senza artifici o secondi fini.

William Eggleston è stato colui che ha dato nuovo impulso alla fotografia a colori già dalla metà degli anni 60, quando la fotografia per eccelllenza era quella in bianco e nero, e il colore, vuoi per la difficoltà della stampa, vuoi per una maggiore vicinanza alla realtà delle cose, veniva considerato dall’establishment culturale poco rilevante.

Richard Avedon, John Szarkowski, 1975

Nato a Memphis nel Tennessee, consigliato da John Szarkowsky, direttore del dipartimento di fotografia del Moma di New York, cominciò ad esplorare fin da subito le possibilità che gli offriva la fotografia a colori, costruendo le immagini sulle anonime realtà del sud degli Stati Uniti, indagate attraverso un nuovo punto di vista che predilegeva momenti e luoghi assolutamente banali, ma che, attraverso l’obiettivo fotografico, acquisivano nuova dignità e davano modo allo spettatore di soffermarsi, attraverso un diverso punto di vista, su tutto quello che normalmente lo circondava. La consacrazione avvenne nel 1976, quando proprio il Museum of Moderm Art di New York gli dedicò una personale, che fu definita dal New York Times, come la mostra più odiata dell’anno.

William Eggleston e l’elogio del banale

Nelle fotografia di William Eggleston non accade mai nulla di particolare, i suoi soggetti sono come gli album di famiglia: il ritratto di una zia distinta seduta su una panchina, i cani che abbaiano nel cortile, il lavello pieno di piatti, un camion parcheggiato vicino al marciapiede di casa, una macchina in corsa, taniche abbandonate in un campo, pali della luce. Insomma, tutto ciò che possiamo vedere abbassando il finestrino della nostra automobile, un occhio che dà uguale dignità a tutto, lo sguardo democratico o l’elogio del banale che cerca di sottrarre, attraverso un punto di vista personale, la vita quotidiana proprio dalla banalità dello sguardo.

William Eggleston, Memphis, 1969

Fotografia e sguardo si sovrappongono a tal punto da divenire la stessa cosa, un unico elemento per capire e fruire lo spazio, dove tensione e stato di quiete interagiscono, lasciando nello spettatore, un alone di stupore dovuto alla precarietà dell’equilibrio, che il punto di vista di William Eggleston propone. Un punto di vista sfaccettato, tessere di un mosaico che rivelano il caos quotidiano, da osservare lentamente, cercando di leggere tutti i dettagli che le sue fotografie propongono.

Wim Wenders

Un mondo provvisiorio che ha influenzato grandi maestri del cinema come: Wim Wenders, David Lynch o David Cronemberg, e, quel mondo visto da un triciclo fermo sui marciapiedi di Memphis fotografato da Eggleston a metà degli anni 70, pochi anni dopo sfreccerà tra i corridoi di un albergo, scandagliando tutte le inquietudini e l’inerzia degli sguardi, in un viaggio visionario, che, come in Shining di Stanley Kubrick, si porterà via tutti i luoghi comuni che popolano la realtà delle cose.

Stanley Kubrick | Shining, 1980

Prima del Colore

La sua opera si può geograficamente delimitare entro i confini degli stati del sud degli Stati Uniti. Posti come il Tennessee, l’Alabama, la Georgia, il Kentucky e l’Arkansas sono stati indagati attraverso il sentire “Southern” di Eggleston che ne ha colto le sfumature, il punto di vista, il carattere.

Un’altra definizione che riguarda Eggleston è l’epiteto fotografo del “colore” in quanto il suo stile e il suo nome, sono sempre stati marcatamente associati alla fotografia a colori. I riconoscimenti del suo lavoro, provengono esclusivamente da questo tipo di immagini, che indubbiamente hanno modificato la sensibilità e l’approccio del mondo fotografico in relazione all’estetica del colore.

http://youtu.be/CcJxRYb57_Y

Sud e Colore sono quindi i tratti dominanti della sua poetica, ma, se non si può separare l’uomo dal fotografo del sud, esiste però un Eggleston prima del colore, che ha documentato il modo di vivere e la storia degli stati meridionali degli States.

Una storia fatta di atroci ricordi, di un tempo fatto di schiavitù e di segregazione, che si riflette nei luoghi fotografati e che catturano l’atmosfera di un passato che fa fatica a essere dimenticato. L’assenza di colore accentua il sentire della dicotomia che segna questa luoghi. Le fotografie, ritraggono prevalentemente la comunita bianca residente a Memphis tra il 1950–1960, con le loro case, le automibili, le strade, nelle quali si percepisce sempre, come un sottofondo palpabile, la presenza dei “colored”.

Il presentimento del degrado socio-economico delle città del Sud è l’eredità che i neri hanno lasciato. I protagonisti delle fotografie, sono pervase da un’atmosfera triste, lontanissime dal fascino di questi luoghi. Negli scatti effettuati, che illustrano case appena costruite, William Eggleston sembra quasi presagire il decadimento a venire.

L’assenza del colore non diminuisce la forza o la capacità di raccontare. E’ più difficile, semmai, per lo spettatore dissociarsi dal profondo legame mentale che lo lega col fotografo del colore. In queste immagini l’elogio del banale a lui tanto caro, è legato a doppio filo con l’essere un uomo del sud, che vede con l’occhio democratico, attraverso una scala di grigi, il mondo che lo circonda.

Stephen Shore e i non luoghi

Una ricerca che andava di pari passo con quella di William Eggleston e la sua democratic camera è quella di Stephen Shore.

Come detto, l’uso del colore nella fotografia d’autore, è la novità con cui si raccontano le storie: storie anonime di commessi viaggiatori e di casalinghe al supermercato. Il “banale quotidiano” entra a far parte della Storia documentata da un punto di vista basso, che non ri-crea il racconto alla ricerca del sensazionale.

E’ l’uso di una nuova Lingua, dietro il rigore geometrico delle linee e la ricerca di colori che siano complementari, si svolgono fatti che passano inosservati ai più, ma vengono registrati dalla pellicola per essere raccontati secondo un nuovo punto di vista: come il silenzio sepolcrale dello Sugar Bowl restaurant, vuoto con i divanetti in linoleum bianco, oppure le spalle di un uomo di El Paso, che in attesa di attraversare le strisce pedonali, legge la programmazione del cinema Capri sullo sfondo giallo e blu.

Sono queste, fotografie, che hanno bisogno di essere guardate e riguardate per leggere tutti i dettagli, attraverso l’uso della prospettiva unicentrica che fissa un punto ben preciso, o le varie sfumature di colori con cui sono composte, come ad esempio l’immagine di Presidio in Texas, dove il groviglio dei fili elettrici, compensa le tonalità di marrone che colorano l’immagine.

La luce, i colori, le sfumature, l’inquadratura, rendono i luoghi anonimi, unici. E’ il punto di vista di Stephen Shore che dà significato a questi non luoghi, la sua decisione di mettere a fuoco un particolare piuttosto che un altro ad indicarci ciò che lui ha visto. E’ l’invenzione di un altro mondo, un universo a colori fatto di automobili parcheggiate e stanze d’albergo con i letti in ordine da guardare da uno specchietto retrovisore.

Stephen Shore | Biographical Landscape

A metà degli anni ’70 Shore è già una celebrità nel mondo della fotografia visto che fu il secondo fotografo americano vivente, il primo era stato Alfred Stieglitz, ad essere esposto al Metropolitan Museum of Art.

Stephen Shore | American Beauty

A poco più di 20 anni il suo nome è accostato a quello dei grandi fotografi americani, e, a 14 anni, aveva già venduto alcune sue fotografie al Museo di arte Moderna di New York. Dopo questi scatti fu notato da Andy Warhol che lo invitò a far parte della Factory e nella quale espose una serie di lavori sui Velvet Underground, e, soprattutto, dove assorbì l’estetica del banale e affinò lo sguardo sugli oggetti e le situazioni che ogni giorno osserviamo senza guardare.

La fotografia di Stephen Shore colpisce subito per la sua immediatezza e per l’ordine matematico della composizione, che registra sulla pellicola un Paese depresso dopo anni di guerre e contestazioni, e nel quale non sembra più esserci posto per nulla di nuovo.

Ed è proprio questo visto e rivisto che emerge dagli scatti, un paesaggio assente che non concede nulla allo spettacolo, gesti e oggetti che si appropiano della scena, ma sono resi invisibili dalla ripetizione meccanica e quotidiana. I piatti sporchi, le frittelle a colazione, il riverbero di un arcobeleno in un parcheggio, la fila di automobili ad un anonimo distributore di benzina, sono lo spazio pieno che veicola i movimenti delle persone.

Stephen Shore

Movimenti metodici quasi automatici che fagocitano lo spazio e lo svuotano di ogni significato altro e alto. Le fotografie di Stephen Shore allora si appropriano di tutta l’arte concettuale americana degli anni ’60 e ’70 contaminata dalla Straight photography. Il lavoro di Sol Lewitt o Gerard Richter sulla ri-presentazione e ri-codificazione delle immagini, dettano la strada alla ricerca di Shore, che a sua volta fa propria la grande tradizone di Evans, Frank e Garry Winogrand, che hanno attraversato l’America, per documentare l’evoluzione del paesaggio: naturale ed umano.

Meyerowitz | Deserti di Luce

Un paesaggio che Michelangelo Antonioni aveva attraverso con i lunghi silenzi dei suoi film raccontando l’invivibilità della città contemporanea. La predilezione, inoltre, per l’arte contemporanea, gli aveva consentito di affrontare le contraddizioni del tempo presente, utilizzando linguaggi che si adattavano benissimo al suo modo di intendere il cinema.

Alberto Burri | Cretto Nero

In Deserto rosso, i rimandi ai cretti di Burri infatti sembrano contemplare e racchiudere il tempo in funzione della ricerca di una identità esistenziale e spaziale che potesse permettere all’uomo di abitare. In Blow up, la sospensione metafisica del tempo veniva dilatata e contratta nello spazio di una fotografia, esplorando infine il deserto delle dimensioni metropolitane, prima che avvenisse l’esplosione dell’abitazione, allegorica della città in Zabrinsky point.

Il mondo del deserto ha sempre affascinato Michelangelo Antonioni, infatti oltre a Zabrinsky point, ritorna in Professione reporter, film nel quale la tematica del territorio è strettamente legata a quella della perdita di identità.

Michelangelo Antonioni | Zabriskie Point

In Zabrinsky point Los Angeles è letta attraverso il movimento dell’automobile, a cui corrisponde la staticità del deserto, simbolo di uno sguardo che per rimanere vivo può solo prefigurare l’esplosione della civiltà dei consumi, esplosione che richiama i grandi quadri di Jackson Pollock . Questo film ha affrontato il tema del deserto e dello spazio contemporaneo come deserto, cosa che, allo stesso modo, farà negli anni ’80 Wim Wenders con Paris-Texas, chiamando lo stesso sceneggiatore di Zabrinsky point: Sam Shepard. Il viaggio nel deserto è un viaggio verso la “profondità del tempo in cui ricomprendere fino in fondo il passato e prepararsi al futuro” .

Wim Wenders | Paris Texas

Spazio e tempo che, Joel Meyerowitz, fotografo del Gateway Arch di St.Louis di Eero Saarinen, cerca di comprendere mediante la ricerca di un tempo istantaneo, tramite la complessità della luce. Per Meyerowitz, l’idea di visibilità di un territorio è data dalla capacità dello sguardo di comprendere la pienezza della luce come forma.

La luce e il tempo sono lo spazio dell’uomo e quindi anche Meyerowitz nel raccontare la città, parte da questa dimensione del tempo istantaneo. Un tempo dove succede sempre qualche cosa, in cui c’è sempre la presenza di un uomo o di un gesto, piccolo o grande, oppure l’immagine stessa, ove non ci sia questo, è traccia di un evento e questo è l’uso della luce.

Joel Meyerowitz

Nella città, spazio totalmente creato dall’uomo è soprattutto attraverso la proporzione, il pieno, il vuoto, i materiali o la luce che riceviamo i messaggi. Le città acquistano una identità particolare a seconda dell’orientamento della luce, e lo spazio, acquisisce una nuova connotazione surreale, tra Edward Hopper e Giorgio De Chirico.

La luce, nelle fotografie di Meyerowitz sottolinea gli spazi anonimi delle città americane, la presenza evanescente dell’ombra raddoppia la forza delle immagini e allo stesso tempo le alleggerisce in modo da poter essere difficilmente colte con un solo sguardo. La finzione dell’ombra aggiunge una nuova verità alle fotografie, dotandole di un significato altro e solo apparentemente simile all’oggetto fotografato.

Joel Meyerowitz

Garry Winogrand | Frammenti di una realtà

Una realtà che Garry Winogrand, uno dei più grandi fotografi documentaristi, morto a soli 56 anni nel 1984, ha scandagliato a fondo, lasciando un’impronta indelebile nel mondo della fotografia.

garry winogrand

La sua morte prematura ha impedito al grande pubblico di cogliere pienamente il suo metodo di lavoro e l’aspetto teorico che stava dietro i suoi scatti. L’enorme mole di lavoro, un corpus fotografico di oltre 300mila scatti è un racconto per immagini della società americana che riprende il percorso tracciato da Walker Evans prima e da Robert Frank poi. Garry così come i suoi predecessori non cerca risposte, ma nei suoi frame da 35 mm vengono raccontate tutte le contraddizioni, le ingenuità e i cambiamenti della società americana.

Garry Winogrand at Rice University

Le sue fotografie sono una disanima caotica del mondo circostante che centrifuga il racconto ordinato della fotografia tradizionale. Un caos che descrive in maniera coerente la varietà di un mondo sgraziato che ha come sfondo quel rumore visivo che le immagini non attenuano ma che anzi mettono se possibile ancora di più in rilievo in quanto parte determinante del paesaggio rappresentato.

Queste fotografie costruiscono un nuovo racconto che pone l’uomo al centro di una storia minima nella quale le immagini afferrano e tratttengono l’attenzione dello spettatore attraverso l’uso della metafora e dell’ironia.

garry winogrand

La prima cosa che si percepisce è la differenza sostanziale che esiste tra ciò che si fotografa e la realtà che non è mai oggettiva bensì è sempre un punto di vista personale che costruisce storie complesse che riflettono solo e soltanto la verità dell’autore.

La strada e gli abitanti americani si sovrappongono, l’idea della frontiera segue una storia già raccontata, come detto da Evans e Frank, e nella quale si ritrovano tracce della rigorosa lucidità di Atget, dell’uso della fotografia come documento sociale e veicolo di cambiamento tipico di Aaron Siskind, Sid Grossman, Sol Libsohn, Arthur Lipsia e Dan Weiner.

A completare il background culturale di Garry Winogrand c’è tutto il filone della fotografia europea che va da Cartier-Bresson a Brassai. E sono proprio Brassai e Weegee che suggeriscono a Winogrand nuovi punti di vista e lo avvicinano alla fotografia sociale e a quel mondo sotterraneo, buio fatto di diseredati e violenza rivisitato secondo una sensibilità ironica che trasforma la denuncia in satira e in cui il tragicomico e grottesco lo depurano da ogni grazia e sfumatura.

garry winogrand

Nei suoi scatti Garry Winogrand enfatizza all’estremo i tipi umani e le situazioni, la società rappresentata è una sorta di ambivalente mondo in cui gli opposti si contrappongono e si confrontano, il bello e il deforme, il sano e il malato, l’ordinario e lo straordinario.

Il suo occhio trasforma i soggetti in caricature catalogando la varia umanità in caratteri ben definiti. Il mondo pivato viene sfasciato, gli attori di questa società hanno bisogno di un palcoscenico ben riconoscibile come solo lo possono essere gli spazi urbani cosi familiari da essere il genius loci di una determinata società. E allora i supermarket , le strade, i centri comemerciali, gli aeroporti, gli stadi, i parchi, gli zoo, i rodei, diventano le quinte prospettiche e i fili conduttori dei contatti sociali che quotidianamente avvengono nelle città.

Garry Winogrand

La forza delle sue fotografie si basa nella capacità di seguire questi fili e di racchiudere in uno scatto la simultaneità delle azioni e delle relazione, dei gesti e dei movimenti che si fondono in un corpus fotografico che ha indagato la società americana come nessuno prima di lui aveva fatto con tanta semplicità e complessità.

Garry Winogrand Gallery

Lee Friedlander | America By Car

Seguendo le orme di Robert Frank o Garry Winogrand, Friedlander ha noleggiato per 15 anni automobili con le quali attraversare i vasti spazi degli States, visti dietro l’obiettivo di una macchina fotografica e dagli specchietti retrovisori dell’ultimo modello di toyota.

Dai cruscotti di plastica lucidata, le fotografie, in formato quadrato, immortalano monumenti, chiese, case, fabbriche, gelaterie, Babbo Natale di plastica, segnali stradali. Più che un viaggio On the Road: la sua America by Car è un esercizio sul paesaggio americano, sulla falsariga del racconto fatto da Ed Ruscha con Twentysix Gasoline Stations.

Ed Ruscha | Standard Oil

Nel modo di comporre le immagini, le auto sono un mezzo dinamicamente illusorio per vedere la realtà, poiche”gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto appaiono”:

Con la sua Hasselblad Superwide, Friedlander scatta fotografie molto nitide, ricche di dettagli, con in primo piano l’interno dell’automobile è una prospettiva un po’ sfalsata di quello che c’è fuori dal finestrino. Questo modo “aggressivo” di fotografare, amplifica il concetto di interno/esterno col parabrezza che segna il confine tra dentro e fuori.

Le imagini sono sempre un continuo rincorrersi tra realtà e finzione, un caotico percorso tra specchi retrovisori e finestre laterali, radio, volante, portiera, che si mescolano con panorami industriali, o ostacolano la visione di pittoresche chiese del New England.

Fotografie che rimandano a Walker Evans e Atget nella loro composizione, una complessa costruzione che mescola fotografia amatoriale e immagini statiche delle telecamere di sorveglianza. Una fotografia che rifugge dal sociale come aveva fatto Frank in The Americans, che quasi mai si occupa di politica ed evita accuratamente New Orleans e Detroit.

Walker Evans | Garage

L’auto per Lee Friedlander diventa uno scudo, un modo per isolarsi dal mondo e che mal sopporta l’intrusione di estranei che mettono la testa nel suo finestrino, una sorta di casa che attraversa senza far tanto rumore la coscienza di una nazione.

Lee friedlander | America profonda

Accanto a Meyerowitz, Lee Friedlander si può considerare il padre della fotografia americana di paesaggio contemporanea, che ha in: Baltz, Egglestone, Gossage, Balz, Robert Adams e lo stesso Meyerowitz i migliori esponenti. Questi rappresentano a colori il caos, la desolazione, o soltanto l’indifferente passare del tempo della periferia americana.

Lee Friedlander con i suoi scatti ha rappresentato , però, una svolta verso l’umanesimo del secondo dopoguerra. La sua ricerca continua il racconto dei grandi spazi degli stati uniti e le sue fotografie rappresentano uno studio approfondito del paesaggio sociale americano. Il tema centrale della sua opera sono i ritratti, gli autoritratti, le fotografie di paesaggio e le nature morte, uno spaccato di gente al lavoro realizzati nel profondo west.

Lee Friedlander

Si può così carpire l’anima dell’america profonda, ai margini delle grandi metropoli, ritratta orgogliosamente da uno studioso della società contemporanea, che ha scritto con le sue fotografie, pagine capaci di far risaltare l’ordinario quotidiano che si riflette nelle pose dei taglialegna dell’Alberta o nelle parate delle città del midwest. Lo spazio raccontato non è più quello smisurato di Ansel Adams o di Weston, ma è lo spazio delle città in rapida evoluzione, della periferia dimenticata, del movimento fugace senza ricerca di sensazionalismi o di momenti decisivi tanto cari a Cartier Bressons.

Lee Friedlander

Le fotografie di Lee Friedlander giocano sull’ambiguità dello spazio e del suo significato che si riflette nell’indagine del suo doppio, da qui tutta la serie dei suoi autoritratti, i quali documentano la presa di coscienza di un’arte che, se pur riesce a carpire i particolari anonimi di un paesaggio, difficilmente registra con esattezza scientifica la precisione dei propri pensieri.

I Nuovi Topografi

Nell’anonimato delle loro immagini invece i “Nuovi Topografi“, ognuno col proprio imprinting, cercano di leggere lo spazio urbano raccogliendo l’eredità di Evans, Frank, Winongrand e Friedlander. Ciò che caratterizza il lavoro di costoro, è la ricerca di un metodo e, soprattutto, di un rigore capace di restituire credibilità all’approccio fotografico.

Lewis Baltz | Model Home, Shadow Mountain
1977

La presenza dell’uomo che modifica e altera il paesaggio e la città, la mescolanza tra natura e artificio, obbliga i fotografi ad abbandonare qualsiasi illusionistico racconto del territorio da un punto di vista naturale, e ad affrontare “il mondo moderno” in maniera disincantata, preservando per quanto risulta possibile, “la fragile coerenza che esiste fra il soggetto e la sua rappresentazione fotografica”, tant’è che la visione di questi fotografi, risulta un’immagine confortante per i viaggiatori in movimento, in quanto è un’immagine desunta dalla geografia dei luoghi, ma immobile e significativa.

Considerare il “fotografico” come indagine e non come rappresentazione sembra essere il fine ultimo della loro fotografia.

L’immediato riferimento delle fotografie di questi autori sono le immagini di Edward Ruscha, che già nel ’62 pubblicò un volumetto dal titolo Twenty six gasoline station, in cui venivano esplorati attraverso la città americana i concetti di ripetizione e monotonia.

Il movimento della nuova fotografia a colori, nel campo strettamente architettonico, si ricollega indirettamente a Robert Venturi, e, per certi versi anche a Louis Kahn. Come sostiene Allan Porter è l’architettura che indirizza la fotografia, ma sempre più spesso la progettazione dell’architettura contemporanea è influenzata dalle possibilità di lettura generate dalla fotografia. In effetti sempre Edward Ruscha nel 1966, fotografò ogni edificio della Sunset strip e realizzò un testo nel quale le immagini in sequenza restituivano i due lati della strada.

Ed Ruscha | Sunset Strip

Ed Ruscha | Twentysix Gasoline Stations

La Route 66, seppur oggi non esiste più, è probabilmente la strada più famosa degli Stati Uniti. Su questa linea d’asfalto che va da Chicago a Santa Monica e che Steinbeck ha chiamato la Mother Road si sono raccontate storie mitiche, cantate canzoni ed è diventata un luogo della memoria e della nostalgia. Già Robert Frank con la sua vecchia OldsMobile aveva raccontato nel 1955 l’America seguendo la polvere e l’odore acre di benzina che si respira nel suo famosissimo libro The Americans.

Ed Ruscha e le 26 Gasoline Station tra Cabala e Calvario

Nel 1962 Ed Ruscha decide di ripercorrere questa strada in un progetto che a ben guardare racconta la vita dei distributori di benzina senza però, ed è importante sottolinearlo, mai fotografare la strada stessa. Twentysix Gasoline Stations, come il titolo del libro indica, contiene, infatti, le immagini di 26 stazioni di servizio fotografati lungo la Route 66 tra Los Angeles e Oklahoma.

Ed Ruscha

Il libro è un viaggio che va da owest verso est e a prima vista sembra documentare un viaggio di andata e ritorno organizzato in maniera quasi cabalistica: il 26 inverte l’anno di pubblicazione 1962, le pagine comprese, le copertine sono esattamente il doppio, ossia 52, in modo che il numero di pagine singole corrisponda esattamente al numero di oggetti raffigurati: due stazioni di benzina a Los Angeles, due a Williams, in Arizona, e due a Oklahoma City fino all’ultimo distributore Fina a Groom in Texas.

In questo modo anche la marca della benzina ha un senso e Fina come nei titoli di coda di un film rimanda alla fine del viaggio e delle 26 stazioni che lette da un punto di vista cattolico sono le 13 stazioni del calvario, meno la crocifissione, che vanno da Los Angeles alla città natale di Ed Ruscha in Oklahoma e poi altre tredici per dare un senso al rifiuto di questo sacrificio da Oklahoma City alla Città degli Angeli.

Ed Ruscha | Twentysix Gasoline Stations

Il libro è cosi una narrazione filosofica e analogica di un viaggio interiore che disegna una mappa precisa che si muove da sinistra a destra, di serbatoi di gas e idrocarburi visti negli stessi punti ma da angolazioni differenti. Una sorta di viaggio al centro della terra e ritorno, nel quale ogni punto ha una sua collocazione precisa che rimanda alla geografia più ampia di una no man’s land, una terra di nessuno dove l’assenza viene fissata sulla pellicola da innocui e anonimi nomi visibili e percorribili in qualsiasi strada americana.

Marcel Duchamp

I rimandi, ovvi, sono al readymade, di Marcel Duchamp, uno degli artisti che maggiormente ha influenzato Ruscha, la presenza iconica di oggetti quotidiani e il desiderio di farli diventare opera d’arte. Lo stesso che negli stessi mesi fa Warhol col la sua zuppa Campbell, il ripresentare un oggetto come una semplice lattina in un’opera d’arte cristallizzando l’oggetto e trasformandolo in icona.

Andy Warhol | Cambell’s soup

I paralleli con il libro di Ruscha però si fermano qui a cominciare dal fatto che le Twentysix Gasoline Stations non sono un insieme di dipinti ma solo di un libro di fotografie.

Ed Ruscha | Twentysix Gasoline Stations

Ed Ruscha e l’arte concettuale

Ed Ruscha, Standard Station, Amarillo, Texas, 1963

Questo aspetto pop del libro di Ed Ruscha viene sottolineato dall’autore stesso in un dipinto del 1963: Standard Station, Amarillo, Texas, in cui il tempo della fotografia viene fermato e cristallizzato in una stazione di gas ideale che rimanda alla serie Twentysix Gasoline Stations e nel quale l’idea di un diverso modo di intendere la fotografia sta già facendosi strada.

Ed Ruscha | Twentysix Gasoline Stations

E’ l’idea di un’arte concettuale applicata alla fotografia in cui la teoria, il concetto, è più importante del lavoro manuale. Come nel 1967 l’ha definita Sol Lewitt:

Quando un artista usa una forma concettuale d’arte, vuol dire che tutta la pianificazione e le decisioni vengono prese prima e l’esecuzione è un affare superficiale. L’idea diventa la macchina che fa l’arte.

La classificazione, così dell’opera di Ed Ruscha diventa alquanto complicata, se è vero che dopo alcuni decenni Twentysix Gasoline Stations in alcune biblioteche non lo si trova sotto la categoria arte ma sotto quella trasporti, ci fa capire come quest’opera sia difficilmente categorizzabile, un esempio di arte fluida che sembra continuamente eludere qualsiasi tentativo di definizione.

Ed Ruscha | Twentysix Gasoline Stations

Bill Owens | Suburbia

La strada diventa un topos essenziale anche nell’opera di Bill Owens nella quale si nota tutto il fervore idealistico che ha impregnato la cultura di degli anni 70, espressi attraverso la voce di una generazione che si poneva contro l’establishment culturale e sociale, e soprattutto contro la guerra del Vietnam e le discriminazioni razziali che dilaniavano la società americana.

Le fotografie sono una denuncia forte e, allo stesso tempo, una documentazione precisa dei movimenti collettivi di protesta, una critica feroce verso l’abuso di potere che si consumava in quegli anni.

Bill Owens | Jimi Playnh with gun | Suburbia, 1972

Bill Owens ha sempre guardato alla fotografia come un mezzo per raccontare i cambiamenti e gli stravolgimenti del proprio Paese, una cronaca sociale precisa che assume un valore di ricerca antropologica nel comprendere i grandi fenomeni che hanno attraversato l’America dagli anni 60 in poi.

Le grandi ondate migratorie, che dalle campagne hanno portato ad un rapido accrescimento della popolazione cittadina, sono stato il light motif della poetica di Owens, che ha cercato di documentare l’inurbamento delle grandi metropoli attraverso la loro crescita tentacolare e i relativi problemi di coabitazione tra le varie etnie.

Il suo lavoro più famoso è Suburbia del 1972 e racconta dell’illusione prima, e della delusione poi, del grande sogno americano, di tutte quelle persone che abitano la periferia delle grandi città. Queste fotografie hanno squarciato il velo di ipocrisia che si viveva negli anni 70 dove la classe media era alla ricerca di una vita tranquilla ai margini della downtown.

Le immagini descrivono un mondo anonimo di giardini e barbecue, di donne con bigodini che corrono dietro ai bambini, tra case identiche e un’urbanizzazione ancora lontana da venire, ma un mondo non ancora deturpato dall’alienazione e dalla perdita di identità.

La periferie raccontata è quella di una middle class che vive il suo sogno di una casa con giardino, e nei week end si trova coi vicini per il barbecue o la festa di compleanno dei propri figli.

Owens ha negli occhi le fotografie di Wegee e dei Freaks della Arbus, e molti dei suoi scatti si avvicinano alla scuola dei “Nuovi Topografi” nata proprio all’inizio degli anni ’70.

Diane Arbus | Twins

La sua naturale evoluzione è stata documentata in New Suburbia del 2007, dove le fotografie a colori si insinuano tra reticoli stradali e labirinti di cemento che raccontano di uno scenario che non lascia trasparire più nulla della leggerezza e degli scatti effettuati nei primi anni settanta.

In queste fotografie non c’è alcuna nostalgia per l‘estetico grigiore della periferia che diventa nazione a sè, declino del sogno americano fatto di grandi parcheggi e supermercati, che isolano questo mondo e lo rendono unico.

From Here to There: Alec Soth’s America

Dal bianco e nero di Bill Owens al colore di From Here to There: Alec Soth’s America, un progetto caratterizzato da oltre 100 fotografie scattate tra il 1994 e il 2010, il passo è breve. From Here to There descrive la grande frontiera americana dal Mississippi al Niagara, oltre ad una selezione dei primi lavori in bianco e nero, e una vasta gamma di ritratti.

Alec Soth

Alec Soth è una delle voci più interessanti della fotografia contemporanea, il suo occhio si posa sugli aspetti più insoliti del paesaggio, il cui vissuto quotidiano, viene impresso su immagini dotate di una potente forza narrativa.

Alec Soth

Alec Soth esplora luoghi e individui che cercano di fuggire la civiltà anelando ad una vita “fuori dalgli schemi”. Il suo lavoro si pone nella tradizione dei fotografi americani che hanno documentato l’altra faccia degli States riprendendo i temi che hanno appassionato Frank e Shore. Soth scatta splendide immagini a colori di grandi dimensioni, spesso usando una macchina fotografica ingombrante, con un occhio rivolto verso la scoperta e la meraviglia di trovarsi di fronte alla bellezza della normalità.

La sua curiosità, il gusto per la ricerca, la ricerca sempre di nuovi soggetti sono i segni distintivi del suo processo lavorativo. La voglia di girovagare e scoprire sempre nuovi luoghi è il light motif di tuti i lavori di Alec Soth che attraverso la sua fotografia invita a scoprire la propria versione del racconto che compone la storia americana, in modo da rendere secondo un punto di vista differente un ritratto inatteso del proprio Paese.

Todd Hido | Frammenti Narrativi

Gli spazi anonimi della città, la documentazione di edifici e paesaggi urbani senza esseri viventi sono la cifra stilistica di Todd Hido, famoso per scattare immagini inquietanti del paesaggio suburbano, nelle cui fotografie è sempre presente un certo grado di realismo.

Hido utilizza solo la luce disponibile e non altera la disposizione degli oggetti per migliorare la composizione delle immagini. I paesaggi notturni, hanno tempi di esposizione lunghissimi, che ricreano l’atmosfera tipica di un luogo attraverso un minimalismo estremo e un’impostazione omogenea degli spazi architettonici, che ne allungano a dismisura le ombre sinistre suggerite dal racconto che il fotografo sta narrando.

Le tematiche di Todd Hido

Infatti, l’utilizzazione di un tempo lungo di esposizione, presenta delle sfide particolari quando si fotografa una casa o un paesaggio, poichè qualsiasi impercettibile modifica della luce dovuta ai fari di un automobile o al lampeggiare di un aereo possono creare effetti indesiderati rispetto all’idea che si ha di un certo luogo.

Todd Hido considera le sue fotografie come una sequenza animata, solo che, la modalità di leggerle suggerisce una narrazione senza vincoli. Le scene sono a volte legate in base a criteri formali come la composizione o un timbro particolare della luce, altre volte invece attraverso storie e personaggi che sembrano vivere nelle immagini.

Nel perseguire le tematiche di isolamento e solitudine che spesso ricorrono nel suo lavoro, Hido ricerca nei dettagli lo spunto per immaginare e raccontare storie per associazioni mentali, oppure attraverso un determinato uso della luce naturale, che amplia la gamma di possibilità entro cui i personaggi del suo racconto si muovono.

In alcuni lavori ha utilizzato macchine fotografiche d’epoca in modo da dare un tocco amatoriale ai suoi scatti, presentati quasi come se fossero vecchi dipinti di Hooper. La sua attenzione per il paesaggio americano visto attraverso il parabrezza di un’automobile, trasforma l’intricato dedadalo di strade perfiferiche, che costellano le periferie delle città, in immagini toccanti che si muovono sulla doppia linea che esiste tra pittura e fotografia.

Edward Hooper

Hido sovrappone il tempo e il luogo con immagini che si dilatano in spazi misteriosamente illuminati da luci al neon, che si riflettono negli specchietti retrovisori delle auto, e aprono lo sguardo, ponendo, sotto una nuova luce, il lato squallido della periferia reale e culturale dell’america contemporanea.

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