Deserti di luce

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2 min readDec 11, 2008

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Michelangelo Antonioni attraverso i lunghi silenzi dei suoi film ha raccontato l’invivibilità della città contemporanea. La predilezione, inoltre per l’arte contemporanea, gli ha consentito di affrontare le contraddizioni del tempo presente utilizzando linguaggi che si adattavano benissimo al suo modo di intendere il cinema.

In Deserto rosso, i rimandi ai cretti di Burri sembrano contemplare e racchiudere il tempo in funzione della ricerca di una identità esistenziale e spaziale che possa permettere all’uomo di abitare. In Blow up la sospensione metafisica del tempo viene dilatata e contratta nello spazio di una fotografia, esplorando il deserto delle dimensioni metropolitane prima che avvenga l’esplosione dell’abitazione, allegorica della città.

Il mondo del deserto ha sempre affascinato Michelangelo Antonioni, infatti oltre a Zabrinsky point, ritorna in Professione reporter, film nel quale la tematica del territorio è strettamente legata a quella della perdita di identità.

In Zabrinsky point Los Angeles è letta attraverso il movimento dell’automobile a cui corrisponde la staticità del deserto simbolo di uno sguardo che per rimanere vivo può solo prefigurare l’esplosione della civiltà dei consumi, esplosione che richiama i grandi quadri di Jackson Pollock . Questo film ha affrontato il tema del deserto e dello spazio contemporaneo come deserto e allo stesso modo farà negli anni ’80 Wim Wenders con Paris-Texas chiamando lo stesso sceneggiatore di Zabrinsky point: Sam Shepard. Il viaggio nel deserto è un viaggio verso la “profondità del tempo in cui ricomprendere fino in fondo il passato e prepararsi al futuro” .

Così Joel Meyerowitz, fotografo del Gateway Arch di St.Louis di Eero Saarinen, cerca di comprendere lo spazio americano non come deserto, ma mediante la ricerca di un tempo istantaneo, tramite la complessità della luce. Per Meyerowitz l’idea di visibilità di un territorio è data dalla capacità dello sguardo di comprendere la pienezza della luce come forma.

Nella città, spazio totalmente creato dall’uomo, scrive il fotografo americano , è soprattutto attraverso la proporzione, il pieno, il vuoto, i materiali o la luce che riceviamo i messaggi. Le città acquistano una identità particolare a seconda dell’orientamento della luce, e lo spazio acquisisce una nuova connotazione surreale, tra Edward Hopper e Giorgio De Chirico.

La luce, nelle fotografie di Meyerowitz sottolinea gli spazi anonimi delle città americane, la presenza evanescente dell’ombra raddoppia la forza delle immagini e allo stesso tempo le alleggerisce in modo da poter essere difficilmente colte con un solo sguardo. La finzione dell’ombra aggiunge una nuova verità alle fotografie, dotandole di un significato altro e solo apparentemente simile all’oggetto fotografato.

La luce e il tempo sono lo spazio dell’uomo e quindi anche Meyerowitz nel raccontare la città, parte da questa dimensione del tempo istantaneo. Un tempo dove succede sempre qualche cosa, in cui c’è sempre la presenza di un uomo o di un gesto, piccolo o grande, oppure l’immagine stessa, ove non ci sia questo, è traccia di un evento e questo è l’uso della luce.

Gallery Joel Meyerowitz

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