IMMAGINARE L’ATTESA. ATTENDERE L’IMMAGINE

josejameson
2Photo
Published in
5 min readJul 27, 2017

--

Abbiamo trovato un bellissimo articolo scritto dal filosofo Pietro Montani e pubblicato su Domus numero 1004 del Luglio/Agosto 2016 sul tema dell’attesa nelle fotografie di Mimmo Jodice. Lo ripubblichiamo sperando di fare cosa gradita a Pietro Montani a Mimmo Jodice e anche a Domus che ne detiene i diritti.

Attesa, opera n. 8, 2014, di Mimmo Jodice. Stampa Fine Art su carta Photo Rag

Ripensando alla serie di scatti grazie ai quali Mimmo Jodice ha fissato la condizione dell’attesa, credo di aver capito che questo tema esistenziale, insieme quotidiano e inafferrabile, richiede alla nostra immaginazione un lavoro per lo meno duplice. Ciò verso cui l’attesa è rivolta — l’atteso, diciamo — può essere infatti rappresentato in assenza. Questa, dopo tutto, è una prestazione ‘fantasmatica’ che l’immaginazione garantisce senza troppa fatica, quasi in automatico. Vedo una sedia vuota e immagino senz’altro qualcuno che ci si andrà a sedere. Tuttavia questo non basta. Non basta perché la condizione dell’attesa, l’attesa nella sua immanenza, sembra voler richiedere che, insieme al qualcosa o al qualcuno che non c’è, venga anche rappresentata la revoca della sua convocazione fantasmatica. Non è sufficiente, insomma, evocare il fantasma (uno che starà seduto lì): deve anche trattarsi di un fantasma che, annunciandosi, scompare; che si è fatto presente, sì, ma solo per lasciare ostinatamente vuoto il posto che gli è già stato assegnato di default. Per questo è così difficile fare una fenomenologia dell’attesa — figuriamoci una fotografia! — senza entrare in conflitto con la più genuina immanenza dell’attesa, che è negativa e indocile o, almeno, privativa e sfuggente. Pensavo che l’attesa, in questo, dimostra una somiglianza forse non occasionale con il silenzio, che dilegua non appena qualcuno si provi a dirlo, e con il dono, di cui non dev’essere svelato il segreto della provenienza, pena la sua trasformazione in un obbligo di restituzione, che lo snaturerebbe. Forse (mi dicevo) c’è qui un intreccio di relazioni profonde che varrebbe la pena esplorare un po’. E forse queste relazioni sono presenti, secondo una tessitura profonda ed enigmatica, nelle fotografie di Mimmo Jodice.

Mimmo Jodice | Attesa, opera n. 15, 1979 (a sinistra) e Attesa, opera n. 11, 1992. Stampe Fine Art su carta Photo Rag.

Sicuramente il silenzio. Ma il dono? Concentriamoci sul soggetto che attende. Come chi tace, costui si trova in una condizione di passività; ma è anche vero che egli la esercita come una modalità particolare dell’azione. Il tacere e l’attendere sono, certo, due forme di spossessamento del soggetto, ma sono anche due modalità di una sua più essenziale (ri)appropriazione. Di che cosa si tacerebbe, infatti, se il silenzio non fosse banalmente inteso come la rinuncia a prendere la parola in una certa circostanza? La filosofia ha messo a punto alcune classiche risposte alla domanda sul silenzio. Wittgenstein, come tutti sanno, diceva che “di ciò di cui non si può dire occorre tacere”. Diceva cioè che se il tacere non è il semplice star zitti quando si potrebbe parlare, ma una suprema necessità, ciò va riferito solo a qualcosa “di cui non si può dire”.

Mimmo Jodice | Attesa, opera n. 2, 2012 e Attesa, opera n. 23. Stampa Fine Art su carta Photo Rag.

Ma di che cosa “non si può dire”? Beh, per esempio, del linguaggio in quanto tale, della sua essenza. Nessuno, senza contraddizione, si potrebbe mettere fuori dal linguaggio per dire, da quella postazione improbabile, che cosa il linguaggio sarebbe nella sua essenza. Heidegger ha formulato un pensiero del tutto analogo. Però ha aggiunto che ai poeti, o almeno ad alcuni grandissimi, capita di poter almeno alludere a questa impossibilità di dire l’essenza del linguaggio. O meglio: capita a costoro di poterla in qualche modo ‘mostrare’ grazie alle parole. Torno al tema dell’attesa e lo ripropongo nella paradossale duplicità che ho presentato all’inizio. Si potrebbe forse mostrare l’assenza di ciò che viene atteso e insieme revocarne il fantasma, subito comparso sulla scena, che toglierebbe alla condizione immanente dell’attesa la sua più genuina sospensione? La risposta è che qualcosa del genere succede nelle fotografie di Mimmo Jodice. Basta un semplice esperimento per convincersene: provate a evocare il presunto atteso — per esempio il pubblico che riempirebbe quella sala teatrale, o cinematografica, vuota; o la vettura, che raggiungerebbe quel desolato distributore per fare rifornimento — e tutta la singolare potenza dell’immagine, il suo severo e quieto riposare in sé, si dissolverebbe. È vero, piuttosto, che queste incongrue presenze (un pubblico, una macchina) voi le avete evocate e al tempo stesso disdette. Non mi par dubbio: in quelle fotografie è davvero presente qualcosa come l’attesa in quanto tale. L’essenziale carattere negativo o privativo della sua immanenza.

Mimmo Jodice | Attesa, opera n. 1, 2000. Stampa Fine Art su carta Photo Rag

Insomma — e non si tratta di una formula abusata: è presente, o è mostrata, un’assenza. Ma com’è potuto accadere? Forse bisognerebbe sottolineare che tra l’attesa e l’aspettativa c’è una differenza di fondo. L’aspettativa è dell’ordine del prevedibile, è l’orizzonte in cui si muove la dura — e preziosa — routine quotidiana della nostra immaginazione. Ecco un esempio: il lattante impara ad attendere che il nutrimento, che lui vorrebbe tutto e subito, gli venga dato più tardi. Questo differimento, diceva Freud, è una grande prova di civiltà: l’evocazione fantasmatica del nutrimento che (prevedibilmente) gli verrà dato più tardi addestra infatti il lattante a familiarizzarsi col principio di realtà, cioè col fatto che non può ottenere tutto e subito. Questa scena ci insegna molto sul sostanziale realismo dell’immaginazione. Non diversamente dal lattante, l’uomo saggio è uno che ha imparato ad amministrare realisticamente le proprie aspettative immaginando di volta in volta che cosa può ragionevolmente aspettarsi a fronte della durezza della vita. Ma all’interno dell’aspettativa, o meglio intorno a essa, come uno sfondo luminescente o un respiro leggero, si apre la condizione indeterminata dell’attesa. E anzi, questa condizione indeterminata dev’essersi già aperta affinché un ordine delle aspettative realistiche divenga possibile. L’attesa è dunque l’apertura, in generale, a ciò che viene. Non a questo o a quello, ma al fatto stesso che qualcosa si trovi nella condizione immanente di poter arrivare. Ci si svela di colpo, in tal modo, la singolare relazione tra la situazione dell’attesa a quella del dono. Il qualcosa che può arrivare, infatti, non è in alcun modo dovuto o pre-visto. È un dono. È gratis. È opera della grazia, si potrebbe anche dire, se fossimo ancora capaci di pensare questa parola secondo il suo etimo antico. E però questo dono indeterminato, questa grazia che ci viene riservata, richiede una grandissima e attiva pazienza, incomparabile con quella, pur così commovente, del lattante che impara a differire il soddisfacimento di un bisogno. L’apprendimento di questa pazienza dell’attendere, di questa condizione del saper aspettare l’immagine che viene e dell’attrezzarsi per coglierla al volo e per fissarla nel modo più rigoroso e conveniente: è questa, se posso dire così, la Pathosformel, la formula del singolarissimo pathos che anima gli scatti grazie ai quali Mimmo Jodice ha saputo dedicare al tema impossibile dell’immanenza dell’attesa alcune fotografie memorabili.

Pietro Montani

© Editoriale Domus | domus 1004 Luglio–Agosto / July–August 2016

--

--