Intervista a Vittorio Savi su Luigi Ghirri Fotografo

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22 min readNov 24, 2008

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Luigi Ghirri | Verso Lagosanto, 1987

Vittorio Savi nel 1983 ha aperto una nuova strada alla ricerca di Luigi Ghirri, lo “scopre” fotografo di architettura e lo invita ad indagare con le sue fotografie il nuovo cimitero di Modena progettato da Aldo Rossi. E’ stato ancora Savi ad insistere perché queste fotografie fossero pubblicate sul numero 38 di Lotus International, dove segnano una svolta importante nel mondo della fotografia di architettura.

Professor Savi, lei è stato l’artefice del fortunato incontro tra Luigi Ghirri e la rivista d’architettura Lotus International, come si sono svolti i fatti?

Vittorio Savi | Architetto

Molto schematicamente le cose sono andate così: avevo suggerito a Pierluigi Nicolin e agli altri redattori di Lotus (Alberto Ferlenga e Luca Ortelli) di rivolgersi a Ghirri per fotografare il cimitero di Modena nel suo secondo stadio, a cubo, e loro hanno accolto questo suggerimento.

Non credo conoscessero Luigi Ghirri, ricordo di avere fatto, anzi, una rapida informativa con in mano il catalogo Feltrinelli del CSAC. Questo è servito moltissimo, ma può darsi che abbia mostrato loro anche qualche cosa dei libri di Punto e Virgola: la casa editrice che insieme a Chiaramonte, Luigi aveva fondato e dirigeva, e in cui erano stati pubblicati libri firmati dallo stesso Ghirri e da Chiaramonte.

E’ stato Rossi a decidere chi doveva fotografare il cimitero di Modena?

Rossi non aveva mano libera nel decidere chi doveva fotografare la sua architettura su Lotus. Il servizio fu combinato, e in quel momento, in assenza di meglio e certamente ascoltando i pareri di persone che stimava: i redattori di Lotus e soprattutto me, ha ceduto subito su questa posizione, che non era un’opposizione viscerale. Resta, però, una sua battuta molto indicativa: erano le prime volte che andava negli Stati Uniti, anni 1982–83, e lui mi disse che di fotografi così, che fanno queste non- fotografie in America ne poteva trovare a centinaia.

Luigi Ghirri | Cimitero Modena | architetto Aldo Rossi

Aveva delle perplessità, Rossi, riguardo alle fotografie di Ghirri?

Aldo Rossi non aveva del tutto accettato il lavoro di Ghirri, in quanto era un tipo sospettoso e non si era mai posto il problema di rappresentare fotograficamente la sua architettura.

Le perplessità di Rossi erano molto forti nei riguardi di Ghirri, soprattutto all’inizio, prima ancora di fare la piccola campagna fotografica sul cimitero di Modena.

Rossi in seguito si sarebbe ricreduto, ma a causa della sua scomparsa temo che non sarà più possibile recuperare questa vicenda, che è una vicenda di rapporti tra l’arte e la critica, la critica fotografica in particolare. Penso però che l’architetto non si sia ricreduto fino in fondo, ma abbia mantenuto, in qualche risvolto della sua conoscenza istintiva, grandissima e geniale, delle riserve nei confronti della ricerca di Luigi Ghirri.

E’ stato Rossi a confidarle di avere delle riserve su Ghirri?

No, questa è una mia considerazione, non ci furono dei veri e propri scambi di opinione tra me e Rossi, ci fu un incontro nel momento della presentazione del lavoro, gli presentai Luigi Ghirri ritenendolo il più adatto a fotografare la sua architettura per un servizio che si presentava da subito così importante.

Mi pare che nel presentargli il lavoro di Ghirri, sul mio tavolo ci fossero oltre ai libri che ho citato, dei volumi dove erano pubblicate delle immagini di fotografi americani, di ambiente, non proprio di architettura, mi pare fossero relative alla Florida, forse Miami. Ma la cosa veramente amara per me, fu, non tanto l’opposizione di Aldo Rossi e neanche la successiva collaborazione fra i due e fra Ghirri e Lotus, ma il pretesto e lo spunto che la rivista prese dall’indagine ghirriana sul rinnovamento dell’immagine fotografica dell’architettura, proponendola come una propria bandiera senza minimamente coinvolgermi. Non pretendevo nessuna medaglia, ma mi aspettavo di essere consultato di più, nell’allargamento della scelta e nella selezione dei fotografi.

Ghirri allora non era esattamente un fotografo di architettura, come mai ha pensato a lui per fotografare il cimitero di Modena?

Io me lo sono inventato come fotografo di architettura, e in effetti, tutta le fotografie che riguardavano le cosiddette rappresentazioni delle casette dei geometri, geometrili, di cui ho scritto nell’introduzione del catalogo della mostra sul paesaggio realizzata a Bologna nel 1981, le avevo intese come fotografie di architettura, egli era veramente “il Fotografo” e direi il maestro del paesaggio.

E’ certo che Ghirri ha sempre fatto una fotografia di paesaggio umano, e queste “cose che sono solo se stesse”, sono le cose prodotte dall’uomo, tra queste l’architettura, che è vista come cosa umana per eccellenza, e Luigi nel fotografarla, lo faceva in maniera più scoperta quando ritraeva le architetture di Rossi, le quali sono l’oggetto di una affezione molto organica al suo occhio, le altre architetture sono un po’ più acquisite, certo diventate organiche al suo occhio, ma c’è questo diventare che introduce un frammento in più.

Dopo questo lavoro Ghirri ha partecipato anche alla mostra Viaggio nel viaggio in Italia organizzata da lei alla XVII triennale d’architettura, che ruolo ha avuto la fotografia dell’emiliano nel campo dell’architettura?

Ci sono state diverse Triennali che hanno coinvolto Luigi Ghirri. Nella mostra Viaggio nel viaggio in Italia, organizzata da me e Vittorio Magnago Lampugnani, durante la XVII Triennale, Ghirri fu coinvolto da me, come autore del Viaggio in Italia, un viaggio architettonico in Italia, ma l’aggettivo architettonico era taciuto.

Nella sua veste di grafico, il socio di Gregotti, Pierluigi Cerri ha ammirato Ghirri, infatti, su sua indicazione, Luigi, fece una mostra sulla Triennale di Milano, l’allestimento era di Pierluigi Cerri, il quale in seguito fece una cartella.

Diciamo che la rispondenza che ha avuto il lavoro di Ghirri nel campo dell’architettura è andata molto al di là di ogni mia aspettativa. Inoltre credo che, come sempre, un certo mito vada anche al di là del merito individuale, è un fenomeno di risonanza che sfugge alla ragione, al calcolo tipico della critica freddamente obiettiva.

Luigi Ghirri — Aldo rossi | L’architettura di paolo Costantini

Trova che ci sia discontinuità in Ghirri tra le sue fotografie eminentemente di architettura e le “altre” fotografie?

La continuità del suo lavoro, è un altro degli aspetti da rimarcare, perché lui ha potuto fare questo senza introdurre discontinuità da un genere all’altro, se vogliamo ragionare in termini di genere. Ottima è stata tutta la ricerca sul monumentale, certo un monumentale molto annacquato, poco “grande stile” nietzschiano, un po’ anche domestico, sentimentale, però fotografato come da nessun altro fotografo di architettura. Veramente rivelatrice in questo senso è la campagna per il Touring Club, in gran parte inedita, fucina di altre sequenze e di altri libri. Sono convinto, fra l’altro, che anche applicato ad un’altra regione della terra avrebbe dato dei buoni risultati, lì ha potuto eccellere e ritrovare una dimestichezza con l’aspetto monumentale, e per gli aspetti alti della regione, senza doversi piegare ad aspetti più statici o periferici indotti dalla committenza.

Luigi Ghirri e il touring Club | Emilia Romagna

Non crede che Lotus abbia avuto dei meriti in questa sorta di rinnovamento della fotografia d’architettura?

Il rinnovamento della fotografia di architettura in Lotus, non era niente di rivoluzionario, ma ha influito in tutto il campo dell’editoria specializzata, soprattutto rispetto alle scelte un po’ sicure che avevano segnato la stagione antecedente delle riviste di architettura, quale poteva essere quella di Domus con Casali, di Casabella con Basilico, la Casabella di Maldonado, quella in cui ero redattore.

In Rassegna diretta da Gregotti, ad esempio, Basilico era stimato, passivamente accolto da Gregotti, il quale lo prendeva un po’ a scatola chiusa, non aveva alcuna remora nei confronti del bravo Basilico.

E lei cosa pensa del bravo Basilico?

Basilico è stato la riscoperta del ‘900 milanese, si è mosso in questo grande campo, in quanto il ‘900 milanese, un certo Sironi, un certo Muzio, sono stati apprezzati.

Gabriele Basilico | Gasometri | Viaggio in Italia

La fotografia dell’industria, per quel tanto di industriale che l’architettura di per se stessa continua a conservare, è il punto estremo della modernità. Credo che Basilico sarà costretto a fotografare i computers, non col computer, anzi, forse accentuerà l’aspetto manuale e meccanico, artigianale della fotografia, però il soggetto, il “landschaft” ormai è cambiato, il paesaggio dei gasometri si trasformerà nel paesaggio di una sterminata selva di computers.

Io credo che questo per lui sarà quasi fatale e molto simbolico.

Ghirri, ancora una volta, era al di sopra di tutto questo. Gli interessavano le tematiche della digitalizzazione quali potevano essere colte in modo quasi aurorale negli anni ’80, però, di fronte a un paesaggio di computers, — penso ad un’immagine vera, recente, di Andreas Gursky, dove si vedono, forse in una banca giapponese, i lavoratori davanti a centinaia di computers -, lui avrebbe saputo come cavarsela.

Andreas Gursky

Oggi non ritiene che si sia esaurita la spinta e la voglia di rinnovare da parte di Lotus, e che la ricerca fotografica al suo interno sia a dir poco stagnante?

Naturalmente Lotus è cambiata, la spiegazione potrebbe essere banale:

Lotus è una rivista di architettura, ma era, forse, meglio di una rivista di fotografia. Però, nel momento in cui c’è una sorta di primato della fotografia sull’architettura, allora c’è anche una sorta di reazione.

La battuta seguente l’ho sentita dire dai redattori di Lotus, laddove il fotografo premeva un po’ l’acceleratore trovando un pedale cedevole, loro reagivano dicendo:

ma questa non è una rivista di fotografia.

La redazione ha il coltello dalla parte del manico, la redazione fa la critica decisiva, decide ciò che si deve o non deve pubblicare, quello che si deve o non deve tagliare.

La redazione o il direttore?

Le riviste di architettura quasi mai partono dal fotografo.

Ad esempio la politica di Lotus è tale che il primato è quello della rivista, anzi il primato vero è quello del direttore prima ancora che della redazione, ma anche la redazione vuole la sua parte. Non si va dalla redazione e questa accetta Luigi Ghirri solo per il fatto che lo si è proposto. Prima si cita Luigi Ghirri, poi si parla con il fotografo, poi in un secondo momento si commissiona il testo separatamente dal servizio fotografico e si vedono le fotografie. La seconda fase della strategia, è andare dal fotografo, escludendo eventualmente l’autore del testo critico.

Pierluigi Nicolin è uno straordinario “opportunista”, anche Ferlenga è un “opportunista”, però Ferlenga nasce dopo, e senza Nicolin non si potrebbe spiegare la sua carriera, la sua esperienza nel campo della fotografia di architettura.

Pierluigi è un talent-scout, le cose, se non passano attraverso di lui non sono scoperte e quindi bisogna procedere, se si vuole avere a che fare con Nicolin, con certi accorgimenti, però debbo dire che, queste sono cose che non riguardano certo Luigi Ghirri, il quale, non che fosse una persona che non abbia subito ingiurie, però, era di qualità superiore, e quindi superava certe strettoie.

Nel numero 57 di Lotus Ghirri si è di nuovo occupato di un’opera di Aldo Rossi: Il centro commerciale Le Torri di Parma, è stato per motivi di vicinanza geografica o ebbe questo incarico su sua indicazione?

Lotus numero 57 | Luigi Ghiri — Aldo Rossi — Centro Torri | Parma

Il Centro torri di Parma non fu fotografato su mia indicazione, né forse su indicazione di nessun altro, ma come opera che ricadeva in un territorio di vicinanza.

Luigi Ghirri ricercava la vicinanza più che la lontananza, non era affatto esotico. Il Centro Torri è stato fotografato, come del resto lo fotografavano altri fotografi tra Parma, Reggio, Modena, Piacenza, perché era oggetto che si doveva fotografare, tipo la cattedrale della città, e quindi di per sé stessa congruente con il tipo di immagine che il fotografo faceva, con il proprio taglio fotografico.

Luigi Ghirri | Centro Le Torri | Clup

Le altre foto relative al Centro Torri apparse sul catalogo Centro Le Torri sono state eseguite tutte tramite la Clup, la casa editrice ebbe un incarico da parte delle ditte del Centro Torri medesimo, con questo finanziamento ci si poté rivolgere a Ghirri che non era particolarmente avido, ma aveva bisogno di “monetizzare”; fra l’altro Ghirri era in contatto con questa casa editrice perché aveva pubblicato insieme a Paolo Costantini il volume su Strand.

Questo libro è assimilabile alla fotografia di architettura, io, infatti, non sarei molto rigido sul concetto che la fotografia di architettura sarebbe quella indicata solamente dalle riviste, dagli editoriali, dalle case editrici di architettura, quindi dalla stampa del settore, sarei un po’ più esteso, guarderei un po’ di più in senso lato, comprendendo in questo “genere” anche alcuni lavori che Ghirri ha fatto sicuramente su altre pressioni, su altre urgenze.

Cosa è cambiato nella fotografia di Ghirri dopo questa “intrusione” nel mondo dell’architettura?

La rappresentazione si è ammorbidita moltissimo, già il cimitero di Modena è rappresentato con una geometria predisposta, molto tirata, molto tenuta. In seguito, c’è stata una composizione maggiore. Composizione è un termine più elaborato di astrazione geometrica, di geometrizzazione, e lui l’ha attuata in chiave di ammorbidimento dei contorni, tutto è rimasto nitido, ma non ipernitido, l’esecuzione, la profondità di campo, è sempre rimasta notevole e totale e tutto a fuoco, soprattutto sul piano cromatico.

Questo potrebbe essere dovuto alla stampa di Arrigo Ghi che ha messo in pratica le direttive di Ghirri in modo esemplare?

Ghirri deve tanto della sua immagine a Ghi, ma credo che Ghi lo abbia ascoltato molto.

Lo stampatore è detentore di un sapere artigianale che probabilmente si andrà a perdere a causa della disciplinizzazione della fotografia, ma certo, Ghi potrebbe dovere tutto a Luigi, come è il mio caso o come è il caso di Gianni Celati.

Diciamo che io, se non ci fossero state delle ammissioni e confessioni di Luigi sarei uscito di scena molto rapidamente, non nel senso che lui non avrebbe continuato a frequentarmi, ma nel senso che gli altri, una volta scomparso, non mi avrebbero neanche notato, poiché, fondamentalmente sono un critico di architettura, ed è facile sbarazzarsi o sottovalutare la critica.

Nel caso di Ghi, ossia di un artigiano è ancora più semplice. Lotus ha ringraziato molto Arrigo Ghi, però tutti si sentono autorizzati a trascurare e a non approfondire questo aspetto.

Per fortuna Ghirri ha lasciato, non dico delle indicazioni testamentarie, ma delle indicazioni ai suoi cari molto precise, dalle quali ho ricevuto una grande eredità spirituale spendibile culturalmente.

Dava a Ghirri qualche indicazione su cosa fotografare?

Fra me e Luigi non c’era concorrenza, c’è stata sempre molta collaborazione, è chiaro che lui era il Fotografo. Io gli davo anche delle indicazioni su cosa fotografare, ma devo dire che dentro di me non mi sentivo sicuro di queste indicazioni, speravo come forse è anche avvenuto, che lui correggesse la mia intuizione, non prendesse per oro colato ciò che gli dicevo, ma operasse secondo il suo criterio.

Credo che da me, abbia imparato soprattutto una cosa che avevo chiara, ovvero l’atmosfera del luogo, quella che Benjamin chiama aura: l’hic et nunc. Credo che lo abbia imparato sia leggendomi qualche volta, sia e soprattutto durante le nostre conversazioni.

Walter Benjamin | L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Tutta la critica, almeno quella recente, guarda poco all’intorno dell’architettura, apprezza poco i fatti fisici e i fatti umani, il paesaggio fisico, ma anche il paesaggio umano che secondo me hanno un’importanza determinante, e se non determinante comunque notevole. Nell’indagare e nell’esplorare questo aspetto del paesaggio e dell’architettura, Ghirri ed io, abbiamo seguito gli stessi binari, e non saprei dire chi ha insegnato all’altro, perché tutti e due avevamo molto chiaro che l’assenza di figure umane era un potenziamento dell’umanità, della fotografia, anziché una deprivazione, e non abbiamo mai pensato di voler fare una fotografia solo al paesaggio architettonico o fisico, ma proprio in quanto solo paesaggio fisico, pensavamo all’estrema umanità di queste cose prodotte dagli uomini, sentite dagli uomini, e che, veramente, queste cose non sarebbero state e non sarebbero apparse alla visione, se non fossero passate attraverso un uomo in qualche modo.

Quando sento contrapporre il paesaggio umano al paesaggio fisico, la fotografia di paesaggio fisico alla fotografia di paesaggio umano, la fotografia concettuale alla fotografia realistica, penso che si è sulla strada di un grande fraintendimento, perché l’opposizione non esiste fin dall’inizio. Capisco che il genere ha una certa importanza, ma sono fatti più che altro formali, e bisognerebbe, allora, introdurre una nozione di forma: è naturale che un nudo umano è molto diverso da un nudo architettonico, ma è chiaro che le due categorie sono in se stesse la stessa cosa. La nudità del paesaggio esterno, comprende anche le nudità dell’esterno umano, e le comprende anche se in quel momento la figura umana è fuori campo.

Per questo motivo sono sconsolato quando si cerca di esaltare la fotografia di Ghirri per legittimare il paesaggio umano.

Sembra quasi che Ghirri abbia fotografato prendendo spunto dalla sua “poetica”?

A voler essere sincero osserverei che lui ha fotografato a suo modo su spunto mio. Io sono stato l’occasione. L’accordo era totale, forse anche per effetto di una simpatia reciproca, però anche della grande autonomia di Ghirri.

Se penso agli stereotipi ghirriani, penso che siano tutti riconducibili a lui e a nessuna particolare influenza, quindi rispondo non solo parlando di me, ma parlando anche in generale del suo modo.

Lui diceva di sfogliare molte, moltissime immagini, in questa consultazione sarà incappato anche in immagini di architetture note e celebri. E’ sicuro che di Walker Evans avesse una conoscenza buona, non eccezionale. Di Atget, credo che avesse visionato di sua iniziativa le stampe originali a Parigi. Nel caso dei fotografi americani, di Eggleston, di Meyerowitz, questo è molto più difficile da dire. Eggleston so che gli piaceva.

William Eggleston

Dopo Ghirri sono approdati a Lotus Giovanni Chiaramonte e più tardi Olivo Barbieri, due fotografi che svolgevano per certi versi la stessa ricerca dell’emiliano, è stato un caso?

Credo di poter dire che la scelta di Chiaramonte da parte di Lotus, sia stata quasi tutta della rivista, certo l’indicazione potrebbe essere stata, se non ricordo male, dello stesso Ghirri. Barbieri, invece, è arrivato a Lotus attraverso Zardini, in un momento in cui tra Luigi e Barbieri c’era un po’ di freddezza.

In che senso?

La polemica verteva sul problema della fotografia notturna, polemica che io ho visto quasi dal buco della serratura. A questo proposito ricordo di una fotografia, quella del castello in Francia di notte, che a detta di Paola Ghirri, Barbieri realizzò disponendo i due fari dell’automobile in primo piano, verso il castello che risultava così come una nera silhouette, e scattò la fotografia ai fari dell’automobile, in modo tale che si vedesse il profilo misterioso del castello sul fondo.

Olivo Barbieri | Noto, Siracusa 1989

Ora, quello di avere un fuoco in primo piano, lo chiamo proprio un fuoco, fuoco eracliteo, un fuoco fissato da una tal quale velocità della ripresa, ma intimamente cangiante, diventa formula, arida formula da parte di Olivo Barbieri. Questa non è la fotografia della notte, non è neanche la fotografia del fuoco eracliteo o della sovraesposizione, dello squilibrio delle luci, è una sorta di ricetta che lui ricava da certe riprese di Luigi, ma potrebbero essere anche foto ispirate da una manuale di fotografia. Le sue fotografie, sono eseguite certo con grande abilità, ma quello che gli rimprovero artisticamente, è di avere trovato la formuletta.

Barbieri, le sue immagini più conosciute come anche le precedenti, non le ha scattate prima di Luigi. Le sue fotografie partono sempre da Ghirri.

Lo stesse cose si potrebbero dire di Giovanni Chiaramonte, la messa in bolla dell’immagine, è un fatto severo, rituale liturgico, ma arido: in questo senso Chiaramonte e Ghirri sono proprio agli antipodi.

Questo per dire che essere amici non vuol dire scambiarsi le poetiche, la tematica dell’incontro è spesso anche una tematica dello scontro.

Negli scritti di Ghirri ritorna spesso una frase di Shakespeare: “Che ironia della sorte, avere una vista così buona ed entrare in un vicolo cieco”, che suona come una ammonizione verso il mondo della fotografia, cosa ne pensa?

Luigi a mio parere è stata una persona sorpresa e financo perplessa della cecità altrui.

Lui da subito ha avuto nozione, contezza, dell’importanza del suo lavoro, perché per differenza sapeva valutare appunto la cecità altrui.

Diceva:

questo sguardo non è il primo sguardo dentro una camera fotografica

questo lo lasciava dire a Pasolini con il cinema, il quale pensava che la sua prima ripresa fosse anche la prima ripresa che fosse stata fatta, o può succedere con Bertolucci attraverso l’affettazione della sua ricerca.

Ghirri si rendeva conto che questi sguardi non erano lanciati da altri, che alcune geometrizzazioni, certi momenti, non erano dei fatti astrattivi, ma avevano sempre a che fare con l’umano, con le facoltà umane, una facoltà in particolare, quella della visione, alla quale si aggiungeva quella della memoria, ma anche quella di una partecipazione corporea, aggettivo certamente più impegnativo, ma credo che si possa parlare proprio di corporeo. La visione come l’ascolto rientrano entrambi nella sfera della memoria.

Le sue visioni erano accompagnate da forte musicalità, la musicalità di ritmo fotografico. Il suo modo di scattare era musicale, credo possa essere una definizione centrata.

Scattava molto, ma questa sovrabbondanza è perdonabile se valutata nella chiave della partecipazione, proprio corporea, all’unisono tra l’oggetto e il soggetto, in un ritmo che avvolge il corpo durante la danza. Danzava Luigi spostando il cavalletto, cambiando l’obiettivo, scegliendo un punto di vista, il suo moto assomigliava molto alla danza.

Paola Ghirri racconta, che tante volte ha dovuto pulirgli gli occhiali e ha trovato questi occhiali al limite dell’accecamento. Queste lenti erano talmente sporche, che non si capiva come potesse vedere, evidentemente la nitidezza era una nitidezza mentale, interiore. Questi aspetti sono stati valutati in chiave aneddotica e invece credo che vadano valutati in senso artistico e compositivo. Con lo sguardo, Ghirri, componeva verso l’alto, e verso qualcosa di molto umano, se non addirittura umanistico.

Già Gianni Celati aveva accostato la fotografia di Luigi Ghirri alla danza, scrive infatti nel ‘Il profilo delle nuvole’: “ il moto d’avvicinamento fa parte del guardare e la disposizione delle foto di Ghirri mi fa capire che noi ci avviciniamo alle immagini attraverso dei ritmi. La percezione partecipa di un ritmo musicale, come una danza”. Si può considerare Luigi Ghirri il fotografo di Gianni Celati?

Intorno a Luigi Ghirri giravano molte persone, alcune erano colpite dall’eccezionalità della sua levatura, altre erano dei profittatori, non nel senso spregevole del termine, ma gente che gli deve tutto, che profittava delle sue idee creative.

Luigi Ghirri — Gianni Celati | Il profilo delle Nuvole

Nel caso di Gianni Celati, è certo che occorre rovesciare i termini con i quali di solito si parla del suo rapporto con Luigi Ghirri. E cioè, non è Luigi Ghirri il fotografo di Gianni Celati, caso mai, Gianni Celati lo scrittore di Luigi Ghirri.

E’ Celati, che in un momento di crisi della sua creatività e della sua stessa poetica, ha trovato Luigi, si è rivolto a lui e ha potuto risolvere così la crisi. Celati stava naufragando, un naufrago a cui è stata lanciata una ciambella, e la “ciambella-Ghirri” lui l’ha presa e sposata in maniera sorprendente. Strano come nessuno ha voluto e vuole compiere lo sforzo di leggere il rapporto Ghirri — Celati in questo modo.

Qual è la differenza sostanziale tra la fotografia di Luigi Ghirri e la scrittura di Gianni Celati?

Ammiro fino al deliquio in Ghirri la mancanza di affettazione, tutto ciò che era fatto, era fatto sulla base di un effetto preciso, concreto, per niente ostentato, direi quasi riservato. Mentre nella scrittura di Celati c’è affettazione, penso all’uso che fa del presente. L’uso del presente, nella scrittura sembra la cosa più ovvia e invece è qualcosa che andrebbe sorvegliato, filtrato di più, non è per il solo fatto di dire che “questa porta è bianca” che io raggiungo una sorta di biancore fisico e filosofico.

Purtroppo l’affettazione c’è in Gianni Celati, c’è nei maggiori.

Invece, Luigi sapeva dire “quella porta è bianca” al presente in un modo assai poco affettato, come un tentativo di adeguare esterno e interno, e questo è stata una sua ricerca di realismo molto originale, un modo tutto suo di coniugare il presente, il che lo riconduce fuori dalle tendenze, in qualche modo fuori dalla storia della fotografia, storia della fotografia che lui conosceva meglio di altri fotografi italiani.

Luigi Ghirri | Valli grandi veronesi, 1989

In che cosa era evidente questa mancanza di affettazione?

Luigi Ghirri, ad esempio, prediligeva il grandangolo, ma è questo prediligere, quanto è umano e forse troppo umano rispetto al partito preso di dire farò tutte le fotografie col grandangolo, cioè, è anche ammissibile che questo grandangolo venga dismesso.

Curiosità di questo senso c’erano in Luigi, ma un ideale di coerenza superiore, alla fine lo faceva propendere per quel grandangolo, per quella macchina fotografica, per quel formato, e tutto veniva con discreta naturalezza.

Per chi guarda adesso, a-posteriori, tutto è finito, tutto si è concluso, ciò è molto ben avvertibile, ma anche allora per noi, che eravamo dentro il magma, apprendere le indicazioni, la poetica, i tratti della poetica, sentirlo parlare con naturalezza del grandangolo, era un fatto che si è stampato ben di più che se lui si fosse solennemente, a partito preso, pronunciato solo per il grandangolo.

Così come quando parlava dei film anni ’50 in bianco e nero che passavano in televisione, usava la parola curata per descrivere quella fotografia. La parola curata, non significava che facevano una fotografia bellissima, ma era una parola molto integrata con il suo vocabolario, che si rifletteva poi, nei risultati concreti.

Qual era il rapporto di Luigi Ghirri col mercato, in che modo sceglieva i suoi lavori?

Questo aspetto introduce un particolare secondario, ma interessante, e cioè che Luigi Ghirri fu un fotografo ed un artista povero e non esattamente abile da un punto di vista economico, lo sarebbe sicuramente diventato. Lui diceva:

Questa attitudine, questo lavoro, che mi è venuto in parte anche da te, io non lo riesco a monetizzare.

Per riprendere il caso di Aldo Rossi lui puntava ad avere in esclusiva l’opera completa dell’architetto, fra l’altro sbagliando anche i suoi calcoli, perché in quel momento Rossi esplodeva anche geograficamente, quindi sarebbe diventato difficile se di volta in volta avesse dovuto seguire i suoi iter progettuali, ma Ghirri, lo vedeva soprattutto come autore padano o al massimo europeo, e riteneva che, avere l’esclusiva di Aldo Rossi sarebbe stato facile e poco dispendioso.

Non era in grado di monetizzare e gestire il rapporto con il cliente. Sento di poter dire, però, che lui è stato anche un esempio morale, una persona che, pure consapevole dell’eccellenza del lavoro, non si mostrò mai di nessuna arroganza e di nessuna astuzia mercantile. Credo che questo sia indicativo dell’esatto valore che dava della sua fotografia: valore intellettuale, culturale e artistico. Sono tra quelli che pensano che la cultura debba volgere in arte e l’arte in poesia, quindi sono un estimatore del valore poetico della sua immagine.

Non ha mai tirato la corda e si è accontentato di compensi molto ragionevoli. Lui diceva spesso:

“Forse un milione può sembrare tanto, ma se ti cade un obiettivo questo lavoro è già finito”. Fra l’altro aveva un’attrezzatura assai limitata, tanto che una volta mi disse: “Ma tu hai più attrezzatura di quanta ne abbia io“, io dilettante ne avevo più di lui professionista.

A proposito di attrezzature era attento a quello che proponeva la tecnica?

Ghirri non era disattento nei confronti di ciò che proponeva la tecnica. Sapeva che esistevano i banchi ottici ed altre “meraviglie”, ma quando io avevo qualche perplessità sulla 6*7 Pentax, lui diceva:

Voglio una macchina che deve rispondere ai requisiti che io stesso stabilisco, se non è in grado di darmeli meglio allora una vecchia Pentax 6*7, pesante

che per contrappasso gli forniva l’agilità, di un formato il più simile al 24*36. Il 24*36 rappresentava il suo ideale su cui tanto volentieri sarebbe tornato. Quanto al cavalletto aveva una certa maestria prensile nel maneggiarlo, ma non lo amava né lo detestava.

Tornando al mercato della fotografia di architettura l’esempio morale di Luigi Ghirri è stato seguito?

Dopo di lui, anche per merito del suo essere battistrada, si sono avute, credo, numerose esperienze sconsolanti. A questo proposito cito il lavoro di Paola De Pietri, una ragazza che si è laureata con me con una tesi di laurea come saggio fotografico su Casa Malaparte a Capri, adesso viene considerata un esempio di autrice emergente. Conosco bene la sua ricerca, ed è una ricerca che vale come forma di artigianato applicata all’architettura, la sua opera è frutto di una sapienza in parte innata, in parte indotta, in parte studiata e perfezionata, che le ha permesso di ricevere anche delle soddisfazioni economiche sorprendenti, enormemente superiori a quelle avute da Luigi Ghirri.

Casa Malaparte | Capri

I personaggi che girano nel mondo del mercato dell’arte e scelgono la De Pietri, attraverso giri e raccomandazioni che io posso intuire ma non posso sapere, chiedono di fare fotografie grandi perché devono essere grandi, o di fotografare interni domestici in modo un po’ voyeuristico perché così vuole il mercato. E se la fotografa esegue scrupolosamente le direttive della committenza, si capisce che la fotografia non è l’esplicitazione di una ricerca culturale propria, ma si fa una promozione culturale, in modo così astratto che mi sembra veramente disdicevole.

Questi problemi con Ghirri non c’erano?

Questo tipo di problematica, ancorché più che albeggiante, con Ghirri, era stata esclusa di pari impeto, perché certamente veniva prima la ricerca, veniva prima lui, le sue ossessioni, e comunque le sue scelte.

Può darsi che per alcuni artisti, come per il “fricchettone” concettuale Vaccari, il mercato della fotografia sia miserabile, ma nel caso della fotografia di architettura, con certe riviste, con certi editoriali, il denaro che corre è tanto.

La fotografia di Ghirri, quindi è sempre stata svincolata dalle ristrettezze culturali e dalla generosità economica della committenza?

C’è una fotografia di architettura quasi specialistica che lui sa innovare proprio per il fatto che non sente le strettezze del genere, e soprattutto le strettezze della committenza. In questo senso l’esempio De Pietri diventa rilevante.

Paola De Pietri

Quando nell’idea della committenza, l’arte diventa servile, non nel senso della funzionalità moderna, ma di mecenatismo rinascimentale, allora si perde ogni senso della misura artistica e morale se non anche di quella economica. E’ chiaro che la fotografa d’architettura asservita ti fa una fotografia di architettura grandangolare e festosa, davanti alla quale qualcuno si inginocchia come di fronte ad un altare, Luigi Ghirri, al contrario, non ha mai voluto sentirne parlare e ha continuato la sua ricerca solo attraverso l’esercizio del suo sguardo, una fotografia, passata prima ad un vaglio interiore.

In Ghirri, dunque, non c’è lo schiavismo della committenza. Dal versante De Pietri, invece, c’è poca personalità e uno sguardo sempre vigile alle richieste del committente tanto da poter facilmente passare dalla fotografia di architettura alla fotografia a dittico a quella concettuale ma sempre noiosa e ripetitiva.

E’ la ricerca l’antidoto alla mercificazione della fotografia?

Io credo nell’antidoto della ricerca, istillare, cioè, la religione della ricerca, perché se l’artista, anche se non ha la caratura di artista, ricerca, si arriva ad un risultato di utilità per tutti; se invece non ricerca, al massimo si può arrivare ad una utilità personale che è un po’ poco, in quanto ci possiamo complimentare con il soggetto in questione, ma il problema della fotografia, se si crede nella fotografia, rimane invariato.

Luigi Ghirri | Atlante

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