Robert Frank | The Americans

2photo
2Photo
Published in
11 min readSep 15, 2014

--

Nel 1958 quando a Parigi venne pubblicato il libro Les Americans con un testo di Alan Bosquet, e un anno dopo a New York con la prefazione di Jack Kerouac, Robert Frank assestava un duro colpo alla visione ottimistica e spensierata degli americani.

Robert Frank e Jack Kerouac

Robert Frank come Kerouac percorre gli Stati Uniti su una vecchia automobile e compie un viaggio On the road nella solitudine del territorio americano e all’interno della stessa fotografia, poiché per lui la fotografia è un viaggio solitario.Con The Americans, veniva rovesciato il modo di intendere e costruire la fotografia, e in questo era molto vicino alle ricerche che allora stavano facendo Ginsberg, Borroughs, e Kerouac nella letteratura.

Il montaggio spezzato delle immagini riecheggia fonemi tipici della poesia kerouachiana, la dissoluzione e la dissacrazione della “bella” forma e della “bella” inquadratura rimanda alla voci e ai testi “sporchi” di Woody Guthrie e del primo Bob Dylan, e all’espressionismo astratto di DeKooning, del primoJasper Johns, di Franz Kline.

Il racconto del territorio Americano

Robert Frank non ricerca il momento decisivo, lascia gli oggetti liberi di assumere qualsiasi significato non includendoli in alcuna gerarchia, ma tutti egualmente significanti rispetto al tessuto reale in cui sono immersi. In un mondo dove l’individuo è solo di fronte a una realtà discontinua e priva di senso, ricerca e ricrea nelle fotografie l’assenza di significato che preesiste al pensiero.

Il racconto del territorio americano attraverso la fotografia di Frank è il racconto della propria coscienza e dei cambiamenti indotti dalla strada e dallo sguardo, ma non è il cambiamento dell’oggetto fotografato.

La fotografia diventa diario e presa d’atto dell’impossibilità di comunicare un racconto che possa uniformare le coscienze di tutti.

Nessuno potrebbe descrivere le fotografie di Robert Frank, rendendone il senso e l’emozione, come Jack Kerouac. Le loro opere (The Americans e On the Road) sono infatti così vicine per ispirazione, genesi e stile da poter essere considerate l’una la didascalia/illustrazione dell’altra.

robert frank

Frank e Kerouac: artisti di strada

Kerouac scrive On the Road nel 1951 dopo lunghi viaggi in machina attraverso gli Stati Uniti; The Americans è, anch’esso, il frutto di un lungo viaggio durato dal ’55 al ’56 che Frank intraprende grazie ad una borsa di studio della Fondazione Guggenheim di New York e che lo porta ad attraversare 48 stati e a restituire un ritratto dell’America di quegli anni insolito e sconvolgente (tanto da essere tacciato di antiamericanismo).

On the Road e The Americans non sono solo accomunate dal soggetto comune, ma da una vicinanza di atteggiamento verso di esso: entrambe si pongono come una riproduzione oggettiva e fedele di ciò che vedono.

Scene, situazioni, personaggi, discorsi vengono riportati senza attribuzione di giudizio, senza gerarchizzazione, senza commento o interpretazione.
Da questa registrazione della realtà deriva, ovviamente e ironicamente, una proiezione incredibilmente personale ed originale. In entrambi gli autori la visione amorale (indifferente a qualsiasi giudizio sul bene e sul male) si trasforma (agli occhi del pubblico) nella messa a fuoco dell’alienazione e desolazione dell’American Dream.

L’introduzione prende presto il tono della “prosa spontanea” di Kerouac, riempiendosi di immagini ispirate dalle fotografie di Frank che la penna dello scrittore riempie di risonanze poetiche, come “la pancia liquida e lucente del Mississippi” (“the bright liquid belly mer of the Mississppi”).

Le descrizioni continuano in libere associazioni prive di apparente logica, la scrittura scandisce il tempo, il “beat”, e non solo ci descrive le immagini di ma ne modula il ritmo. Provo a scorrere le pagine una a una, una foto dopo l’altra: finestra, bandiera, finestra, cappello, cappello, urlo, mano sulla bocca sinistra, mano sul mento desta, passo, passo, bandiera! Questo è jazz: improvvisazione, ritmo sincopato, poliritmia e tono malinconico.

“Chi non ama queste fotografie non ama la poesia, capito?” dice Kerouac, come a dire che le immagini senza centro, sgranate, sfuocate di Robert Franknon rispondono alla sintassi della fotografia ma a quella della poesia; come la licenza poetica piega le regole della grammatica così l’urgenza espressiva trascende quelle della fotografia.

The National Gallery of Art organized a comprehensive exhibit of Robert Frank’s work (Images courtesy of: National Gallery of Art; Produced by: Diane Bolz and Brian Wolly)

Ma “che poesia è questa?” Questo è il poema dell’umanità (humankind-ness) cioè della tenerezza che lo contraddistingue (human-kindness): “ lo humor, la tristezza, il TUTTO e l’Americanità”. Il senso dell’America, secondo Kerouacsta nei volti immortalati da Frank: “facce che non mostrano opinioni, non esprimono critiche, dicono solo: “Così siamo nella vita vera e se non ti piace non lo voglio sapere perché vivo la mia vita a modo mio e che Dio ci benedica tutti, forse”… “se ce lo meritiamo”.

L’introduzione si chiude con una delle più belle frasi che siano state scritte per un fotografo: “Robert Frank … sucked a sad poem right out of America onto film, taking rank amog the tragic poets of the world. To Robert Frank I now give this message: You got yes.Tu hai gli occhi.
La macchina fotografica fa il fotografo ma gli occhi fanno il poeta, la sua visione unica ed incredibile del mondo “ha succhiato” dal cuore dell’America una poesia triste e l’ha impressa sulla pellicola.

robert frank | ascensor | miami

Jack Kerouac | Prefazione a The Americans | Robert Frank | 1958

«Quella folle sensazione in America, quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio (finanziato da una borsa della Fondazione Guggenheim) attraverso qualcosa come quarantotto stati su una vecchia macchina di seconda mano. Con l’agilità, il mistero, il genio, la tristezza e lo strano riserbo di un’ombra ha fotografato scene mai viste prima su pellicola. Per questo Frank sarà riconosciuto come un grande della fotografia.

Dopo che hai visto quelle immagini finisci per non sapere se sia più triste un jukebox o una bara. Perché lui fotografa ininterrottamente bare e jukebox – e i misteri dell’intermediazione, come il prete negro accucciato chissà perché sotto la pancia liquida e lucente del Mississippi a Baton Rouge, all’imbrunire o alle prime luci dell’alba, con una croce bianca di neve e i suoi incantesimi segreti, mai sentiti fuori del bayou. Oppure quella sedia in un caffè, col sole che entra dalla finestra e la avvolge di un alone sacro. Non avevo mai pensato che fosse possibile fissare tutto questo sulla pellicola e ancora meno che le parole potessero descriverne la meravigliosa complessità visiva.

La comicità, la tristezza, OGNI COSA che è AMERICA in quelle immagini! Il cowboy lungo e magro che si rolla una cicca davanti a Madison Square Garden a New York, per il rodeo, triste, allampanato, incredibile. Il campo lungo della strada notturna che si lancia desolata nella piatta, incredibile, immensità dell’America in New Mexico, sotto la luna del prigioniero — sotto la chitarra dlang dlang della star. Vecchie dame smunte e male in arnese, una domenica, a Los Angeles, curve a sbirciare dal finestrino della macchina di Old Paw, imbambolate a fissare e a criticare, a spiegare l’Amerikay ai bambinetti sul sedile posteriore tutto imbrattato – il ragazzo tatuato che dorme sull’erba in un parco di Cleveland, e russa, ignaro di tutto, una domenica pomeriggio con troppe mongolfiere e troppe barche a vela – Hoboken d’inverno, la tribuna piena di politici, tutti con l’aria normale, fino a che, d’improvviso, all’estremità destra vedi uno di loro che contrae le labbra nella tiritera politica (forse sbadiglia) e a nessuno importa niente. Il vecchio incerto col suo bastone da vecchio in fondo a una vecchia scala da tempo distrutta – Il matto che si riposa sotto il tettuccio a bandiera americana sul sedile di una macchina sfasciata in uno di quei fantastici cortili sul retro di una casa a Venice, California. Potrei mettermi lì e buttare giù 30.000 parole (quand’ero ferroviere addetto ai freni sono passato vicino a quei giardini spencolandomi fuori dalla vecchia locomotiva a vapore) (bottiglie vuote di Tocai tra le palme selvatiche) – Robert carica due autostoppisti e li fa guidare di notte. La gente guarda quelle due facce che fissano torvamente la notte che gli si para davanti (“visionari angeli indiani che erano angeli visionari” dice Allen Ginsberg) e la gente dice: “Che facce feroci” ma loro vogliono solo sfrecciare giù per quella strada e rimettersi sotto le coperte – così ci dice Robert – St. Petersburg, Florida, i vecchi strambi in pensione su una panchina nell’animata strada principale che si appoggiano curvi ai loro bastoni e parlano di assistenza sociale e l’incredibile donna, credo seminole, mezza negra, che aspira il fumo della sigaretta e pensa ai fatti suoi, un’immagine pura come il più bell’assolo jazz di sax tenore… Un’immagine così americana: le facce non proclamano opinioni, non esprimono critiche, dicono solo: “Così siamo nella vita vera e se non ti piace non lo voglio sapere perché vivo la mia vita a modo mio e che Dio ci benedica tutti, forse”… “se ce lo meritiamo”… Ah il dolore di Lee Lucien, lamento di una cucciolata di gatti abbandonati.

Che poesia è questa? Che poesie potrà scrivere un giorno su questo libro di immagini un giovane scrittore nuovo, sballato, chino sulla pagina alla luce della candela per cogliere ogni grigio, misterioso dettaglio della pellicola grigia che ha catturato il vero succo rosa dell’umanità? Se è il latte d’umana tenerezza, come lo intendeva Shakespeare, non fa differenza quando guardi queste immagini. Meglio che a teatro.

Strada folle che spinge gli uomini ad andare avanti – la folle strada, solitaria, che ti fa uscire di testa e ti rivela squarci di spazio verso l’orizzonte promessoci dalle nevi di Wasatch nella visione dell’Ovest, dorsali montane alla fine del mondo, costa del Pacifico blu nella notte stellata – candide lune mezze banane scivolano nell’arruffato cielo notturno, a illuminare i tormenti delle grandi formazioni nella nebbia, l’insetto invisibile rannicchiato nella macchina che corre all’impazzata – Il taglio netto la strada principale, la butte, la stella, il canale, il girasole nell’erba – le terre incolte di Arcadia dal profilo arancione, le sabbie desolate della terra isolata, esposizioni intrise di rugiada all’infinito nello spazio nero, dove stanno il serpente a sonagli e la marmotta – il livello del mondo, basso e piatto: la strada inquieta che sfreccia, la strada muta, inespressa, dolorante, in un delirio di copertoni, sulla statale, favolosi appezzamenti di proprietà terriera, verde imprevisto, canali di scolo lungo la strada, quando guardo. Da qui a Elko all’altezza di questo spillo, parallelo ai pali del telefono, vedo un insetto che gioca nel sole caldo – vruum, tròvati un passaggio dopo il più veloce dei treni merci, supera il fumo, trova le cosce, spendi la moneta, molla gli ormeggi, bacia la stella del mattino nel bicchiere del mattino – folle strada che spinge gli uomini avanti. I ghirigori a matita del nostro più remoto desiderio si sono incontrati nel viaggio verso l’orizzonte, la nuvola curiosa oscura le pagine di una distanza ineffabile, le nuvole pecore nere abbarbicate in parallelo sopra l’asfalto da cui sale il vapore – le rocce delitti Missouri ossessionano le terre erose, i campi secchi bruciati scendono morbidi ondulati sotto la luna come lucidi culi di vacca, pali del telefono stuzzicano i denti del tempo, “punteggiano l’immensità” il pazzo voyageur dell’automobile solitaria continua, ansioso e insignificante, a spacciare pianali di appoggio per carrelli e targhe nella vasta promessa della vita. Svuota i tuoi bacini nel vecchio Ohio e nelle pianure dell’Indiana e dell’Illini, porta i tuoi fiumi Big Muddy per il Kansas e per le terre melmose, a Yellowstone, nel Nord ghiacciato, buca la Florida e L.A. coi tuoi laghi, fonda le tue città nella bianca pianura, ergi le tue montagne, sorprendi l’ovest, oscuralo con audaci scogliere di rovi fino alle cime prometeiche della gloria, insedia le tue prigioni nel bacino lunare dello Utah – smuovi un po’ di brancolanti terre canadesi che finiscono nelle baie dell’Artico, ricama il tuo istmo messicano, America – torniamo a casa, a casa.

Giace sul cuscino di raso nella tremenda gloria della morte, l’Uomo, e i neri, pazzi convenuti al funerale, lo piangono e si mettono in fila per dare una sbirciata a quella Santa Faccia per vedere com’è la morte e la morte è come la vita, come sennò? – se conosci i sutra – Al congresso di Chicago il capo sindacale grasso come Nerone e avido come Cesare, con la faccia melliflua piena di sincera, fiduciosa, adulazione fuma il sigaro nella sala fragorosa di birra e si curva a bisbigliare qualcosa – Tavolo da gioco a Butte Montana, con dietro i manifesti elettorali e i piccoli trofei del gioco da buttare giù, sono da soli un editoriale – La macchina ricoperta da un telo impermeabile, stravagante e costoso, di “tarpolian” (un camionista che conoscevo lo chiamava così) per impedire che la fuliggine di Malibu, dove non c’è fuliggine, cada sulla superficie che ha appena lucidato mentre il padrone, un falegname a due dollari l’ora, sonnecchia in casa con moglie e TV, tutti inutilmente sotto le palme, nella sepolcrale notte californiana, ohi, ahi – Nell’Idaho tre croci dove si sono schiantate le macchine, e poi quel cowboy lungo e magro che ce l’aveva fatta fino a Madison Square Garden, dopo nemmeno due chilometri di strada – “Ti avevo detto di aspettare in macchina” dice la gente in America, così Robert furtivamente si aggira e fotografa i ragazzini che aspettano in macchina, che siano tre ragazzini in una limousine motorama, irriverenti & baldanzosi, o poveri bambinetti che non riescono a tenere gli occhi aperti sulla statale 90, in Texas alle 4 di mattina, mentre papà va nei cespugli e si stiracchia -I mostri della benzina sparsi nelle pianure del New Mexico sotto grandi insegne che dicono RISPARMIA — il tenero piccolo bebè bianco tra le braccia della bambinaia nera, tutti e due sconcertati felici, ne dovrebbero mettere la gigantografia per le strade di Little Rock per far vedere l’amore sotto il cielo e nel grembo del nostro universo, della Madre terra – E la foto più malinconica mai scattata, gli orinatoi che le donne non vedono mai, e lo sciuscià che vi si dirige tristemente per l’eternità – Oh! e i fiori sparsi dal vento nel cimitero cinese di San Francisco, la collina martellata dalla nebbia dei campi di patate in una notte di Marzo in cui mi sembra non ci fosse anima viva, solo il trattore cingolato – Chi non ama queste immagini,non ama la poesia, capito? Se non ami la poesia, va’ a casa e guarda la TV con i cowboy col cappello da cowboy e i poveri cavalli gentili che li sopportano. Robert Frank, svizzero, discreto, carino, con quella sua piccola macchina fotografica che tira su e fa scattare con una mano, ha estratto una poesia triste dal cuore dell’America e l’ha fissata sulla pellicola, così è entrato a fare parte della compagnia dei grandi poeti tragici del mondo. A Robert Frank adesso mando questo messaggio: tu sai vedere. E dico: quella ragazzina ascensorista tutta sola che guarda in su e sospira in un ascensore pieno di demoni confusi, come si chiama? Dove abita?»

robert frank | cherleston | south caroline

Published on 2photo:

Robert Frank | The Americans 24 september 2008

Jack Kerouac prefazione di The Americans di Robert Frank 15 september 2012

https://twitter.com/2photo/status/511530221091053568

--

--

http://t.co/nOSqNrqin4 is a photography web magazine that features critical assay about great photographers, upcoming artists, exhibitions