Luigi Ghirri | Fotografo

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18 min readSep 12, 2014

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L’ultima fotografia

Un’immagine divisa in due, così si presenta l’ultima fotografia diLuigi Ghirri scattata nel febbraio del 1992 a Roncocesi.

L’essenza della pianura padana squarciata da un canale che si fa strada nella nebbia, un mondo infinito nascosto, un limite senza segni, una misura impercettibile che si perde nella vaghezza dei confini labili e abbaglianti della luce mattutina.

Il mistero nascosto da una linea sottile che indica la strada all’interno della geometria variabile della terra riflessa nelle acque del canale.

Luigi Ghirri e il paesaggio padano

Un paesaggio mitico, ammorbidito dalle cure dell’uomo e misurato anche dalla lentezza di uno scatto lungo, meditato che coglie la fine di un luogo prima di lasciarlo marcire tra case strade e capannoni tutti uguali che hanno determinato la fine e la perdita del genius loci.

Il paesaggio è morto e quest’ultima fotografia di Luigi Ghirri coglie proprio l’aspetto estetico di questa lenta agonia che si trasforma in un malessere etico per la perdita del riconoscimento del luogo.

Tutto è diventato fotografabile, la gente non guarda più scriveva Luigi Ghirri, il tempo del vedere è diventato quello dell’obiettivo fotografico, una pornografia dello sguardo, dove tutto è mostrato, ostentato e abusato.

Così la cancellazione del paesaggio è avvenuta pian piano prima materialmente per poi insinuarsi nella percezione dello stesso paesaggio, una sorta di deserto dello sguardo che ha frantumato la campagna ma anche i centri storici trasformando la natura in un oggetto plastificato usa e getta.

La fotografia che volta le spalle ai rumori del mondo

L’ultima fotografia di Luigi Ghirri volta le spalle ai rumori del mondo, il desiderio di tornare al focolare domestico nell’intimità dei propri affetti, un misurare lentamente la soglia di casa senza volerla attraversare, un antico modo di vedere il mondo muovendosi a passi lenti intorno alle cose che meglio si conoscono per cercare di approfondire e svelare i dettagli nascosti.

Una fotografia che vuole abitare il proprio mondo senza cercare sensazionalismi o tecnicismi esaperati, c’è solo la nebbia che dissolve i margini e rende i confini dello spazio fotografico, ma anche mentale, indefinito.

E’ un ritorno al silenzio, una ricerca quasi mistica di qualcosa che non c’è più, una luce abbacinante e invernale che pervade la terra arata, i riflessi gelidi dell’acqua e il verde smorto dell’erba che fatica a crescere.

La luce che indica e nasconde, il bianco totale che ricorda il romanzo Cecità di Jose Saramago dove tutti vedono solo il non-colore bianco. Un mondo che si dissolve in questa nuova cecità dell’iper-visione, rappresentato dal candore del bianco che tutto fagocita senza lasciare traccia alcuna. Un non-colore che indica un non-luogo, un mondo sospeso che fa da contraltare al fango e all’acqua putrida che ancorano l’uomo alla terra.

Così si perde indicando la strada verso l’indefinito mistero la luce simbolica e reale dell’ultima fotografia di Luigi Ghirri.

Viaggio in Italia

Luigi Ghirri | Alpe di Siusi

Luigi Ghirri nel 1984, è il promotore di Viaggio in Italiainsieme a Gianni Leone e Enzo Velati e a fotografi quali:Mimmo Jodice, Fulvio Ventura, Giovanni Chiaramonte, Olivo Barbieri, Mario Cresci, Vincenzo Castella, Vittore Fossati, Cuchi White. Questi non si propongono di spiegarci il paesaggio o l’architettura italiana, ma si muovono in unageografia che conoscono proponendoci i loro modi di vedere.

L’indagine dei fotografi in Viaggio in Italia, prende spunto dal medesimo desiderio di raccontare una storia, un paese, un territorio, e con la “facilità di quanto accade nel casuale andirivieni del viaggio, rappresenta l’unico, fragile supporto al metodo di spiegazione dell’architettura”.

Si cerca la campagna che non c’è più, o meglio quella che esiste tra le colate di cemento e diventa luogo mitico dove ritrovare la propria memoria, una memoria che vive nelle periferie, luogo-non luogo in cui meglio viene rappresentato il vuoto e le caratteristiche del paesaggio contemporaneo.

Il tempo viene fermato e non si ricerca più il tempo-momento in cui far risaltare lo spazio celebrato dai monumenti che caratterizzano la città, mal’assenza di tempo e dello spazio che contraddistingue quotidianamente la vita della città, rivelata da una ferrovia, come in Mario Cresci, o in un arcobaleno, come in Fossati, o da una casa diroccata (Chiaramonte).

Vittore Fossati | Oviglio, 1981

L’assenza di tempo viene fissata da Luigi Ghirri nello spazio di un manifesto, vera realtà nella finzione quotidiana.

Non si cerca l’unicum, ma sommersi da un’immondizia reale, prima che culturale, si cerca di dare un volto, come fa Barbieri, all’uomo del bar che, però, tende subito a svanire. Così, un campo di calcio polveroso, fotografato da Cresci, o la stazione di Livorno ripresa da Chiaramonte, ci rimandano agli interni, ormai fittizi, come ci di-mostra Ghirri, o anonimi, come svela Castella, delle nostre case. Jodice ha frantumato la città dei monumenti, mentre Cuchi White ci invita ad entrare e aggrapparci nella finzione delle sue architetture. Guardando queste immagini sembra che non resti che rifugiarci nei giardini delle città, scoprendo per fortuna che “si chiude al tramonto”.

Olivo Barbieri | Finale Emilia, Modena, 1982

Le città di questi fotografi, sono città di margini in cui gli oggetti comuni non vengono allontanati dall’obiettivo fotografico, ma sono colti mediante quella poetica del quotidiano che li rende vivi e compresenti. I fotografi attraversano il paesaggio e le città come ogni giorno le attraversa ognuno di noi, soffermandosi a contemplare le automobili o l’asfalto, le stazioni o gli oggetti comuni.

Sono fotografie di limiti e desolazione, ma non solo, che testimoniano il paesaggio anonimo, quello lontano dalle zone blu e dalle mattonate del centro, sono l’emblema della periferia che non ha industrie e in cui la campagna, indagata come bordo urbano, non esiste, lontana dai nostri occhi, e continuamente calpestata. Le luci dei bar, i tralicci di una stazione o un arcobaleno, sono i veri protagonisti di queste fotografie “banali” che danno dignità al brutto e perciò emarginato. La presenza umana è sempre intuita, ma mai mostrata esplicitamente. Le città vuote rimandano a scorci metafisici, il tempo è bloccato dalle luci dei neon o dalle pietre delle case che relegano gli uomini dietro i muri o in secondo piano rispetto agli oggetti che catturano l’attenzione.

La città è il centro della vita e dell’azione, l’uomo la contempla, ma allo stesso tempo, è contemplato e liquefatto dalle lunghe pose delle fotografie.

Fotografia e iconografia del paesaggio

La storia della veduta fotografica contemporanea, in Italia, risente delle crisi delle ideologie del dopoguerra: infatti la filosofia crociana ha impedito l’instaurarsi di un corretto rapporto con le culture diverse da quelle occidentali, ma anche con la moderna antropologia, con alcune branche della filosofia marxista, con la psicoanalisi o con la riflessione fenomenologica.

Canaletto | Piazza san Marco, 1730

L’iconografia della città, fino al ventennio fascista, era rimasta ancorata ai canoni della pittura di veduta settecentesca, la città era solo quella dei monumenti, da cartolina o della cultura pittorica idealista. Negli anni ’50, invece, diventa il luogo del benessere, dell’industrializzazione, luogo senza storia aggrappata alle meraviglie delle industrie, in cui la campagna è stata rimossa dalla nostra cultura.

In questi anni prendendo spunto dai grandi reportage delle riviste americane, in primis Life e Look, si indaga il paesaggio attraverso racconti e sequenze di stampo neorealistico, quali ad esempio le campagne antropologiche alla ricerca di zone arcaiche e depresse in cui ritrovare il “tempo perduto”. Negli anni ’60 e ’70 la foto di paesaggio vive solo nell’ambito fotogiornalistico: Panorama, Epoca, L’Espresso, o nelle fotografie amatoriali.

Negli anni ’80 si torna a esplorare il paesaggio, attraverso le grandi committenze, in cui si analizzano le città ma non le realtà urbane, anche se, negli incarichi dati dal Touring Club, a tutta la nuova generazione dei fotografi italiani: Jodice, Radino, Cresci, Ghirri, Chiaramonte, le città e i paesaggi vengono osservati al di fuori dei monumenti, visti come punti di transito e non come elementi fondanti.

Nelle guide, diventa assai difficile per il fotografo mantenere una certa autonomia, per il ruolo che ha la guida di mostrare e guidare il viaggiatore verso il “bello” e l’interessante secondo il numero degli asterischi.

Fotografare la città | Un segno associato alla realtà

Si può senza dubbio stabilire una netta differenzazione tra una fotografia di architettura “classica”, utilizzata in genere dalle riviste specializzate essenzialmente per documentare l’architettura, e le immagini di fotografi che invece hanno tentato e tentano col loro operare di raccontare l’architettura.

Giovanni Chiaramonte

Con Luigi Ghirri, ad esempio, si era consapevoli di dare spazio ad un nuovo modo di intendere l’immagine dell’architettura emancipandola da pose stereotipate e trasformando, allo stesso tempo, la fotografia in un supporto attivo e autonomo da porre in una relazione dinamica e vantaggiosa con la stessa architettura.

Luigi Ghirri | Bologna

L’importanza del fotografo emiliano sta nell’aver considerato l’immagine come “un segno associato alla realtà” di modo che la città acquistasse nello spazio bidimensionale della fotografia nuova consistenza e significato.

Sulla scia di Luigi Ghirri, prendendo spunto dalla sua poetica, ognuno restando fedele però alle proprie convinzioni, ha operato un gruppo di fotografi che ha utilizzato la fotografia per comprendere l’architettura e in modo particolare la forma della città.

Mimmo Jodice

Con le loro vedute, Chiaramonte, Barbieri, Jodice, Rosselli, hanno indagato la complessità e la continua evoluzione e trasformazione delle metropoli cercando di descrivere il senso di una mancanza di limite mostrando così la capacità di comprendere la città contemporanea attraverso le diversificazioni ambientali che la frammentano non solo nello spazio ma anche nel tempo muovendosi in uno spazio urbano saturo di informazioni e nel quale la ‘proliferazione di nuovi parametri’ tende a rendere sempre meno identificabile.

Genius Loci

La perdita del luogo, è uno dei temi che più impegna i progettisti nella rivalutazione della città.

Genius Loci Weimar 2013 Bauhaus Universität

Lo smarrimento del genius loci, dello spirito del luogo, che rende una città, un paesaggio, riconoscibile da chi lo abita, è lo smarrimento dell’uomo e della sua identità. Il genius loci si manifesta come collocazione, configurazione spaziale, e articolazione caratteristica, questi aspetti sono gli oggetti dell’orientamento e dell’identificazione umana, insieme naturalmente alle proprietà strutturali primarie, come il tipo di insediamento o le modalità di costruzione.

L’architettura di Aldo Rossi che ha “voltato le spalle ai rumori del mondo“, in cui l’estraniazione degli oggetti diventa il simbolo dell’alienazione delle periferie, e propone una immagine della città come locus della memoria collettiva è esplicitata dalle fotografie di Luigi Ghirri in cui spesso la periferia diventa il luogo mitico dove ritrovare la propria memoria, luogo-non luogo dove meglio viene rappresentato il vuoto e il carattere del paesaggio.

Il luogo, i luoghi, per l’architetto milanese come per Ghirri sono più forti delle persone, e la scena fissa è più forte della vicenda. Le città sempre vuote, disabitate, metafisiche, il tempo bloccato nel mattone, sono il tratto caratteristico dei lavori di Ghirri per Rossi. L’architettura di Aldo Rossi sorge negli spazi dimenticati dalla storia, ma diventano con la singolare simbiosi con il cielo il punto di vista privilegiato di una scena prospettica ancora sconosciuta. Sia per il fotografo sia per l’architetto, lo spazio della rappresentazione coincide con la rappresentazione dello spazio, questo è il fondamento teorico dell’architettura di Rossi nonché uno dei principi della poetica ghirriana.

Il tempo e lo spazio costruiti dalla luce e dall’occhio del fotografo, sospendono la vita relegandola dietro agli edifici e a sbalzo fuoriesce, ma sempre in modo marginale rispetto agli oggetti che catturano d’acchito l’attenzione. Luigi Ghirri vuole riscoprire l’eccezionalità del quotidiano e del banale senza alterare la luce o ricorrere a mezzi che possano attenuare gli “errori” dell’obiettivo.

Nella dicotomia realtà/finzione e nell’ambiguità vero/falso si muove la ricerca del fotografo che indaga sul già visto e sulla vera verità della rappresentazione fotografica. L’attenzione per l’anonimo che ha contraddistinto tanta produzione dell’emiliano ci conduce verso un mondo reale che nella sua fotografia non è mai testimonianza del banale quotidiano, sottolineatura kitsch, ma desiderio di conoscere, decifrare un paesaggioe ricercare un’identità territoriale all’interno di realtà storicamente escluse.

Luigi Ghirri fotografa per il T.C.I. l’Emilia Romagna

Touring Club Italiano | Emilia Romagna | Foto Luigi Ghirri

Il T.C.I nasce nel 1894, con il fine di proporre una conoscenza ampia e articolata delle bellezze naturali e artistiche dell’Italia. E’ un ente che ha sempre considerato la fotografia come “arte” autonoma dotata di una propria autorità intellettuale, attraverso il contributo di autori impegnati nello studio del territorio e del paesaggio italiano.

Nelle guide la fotografia non viene intesa come illustrazione didascalica di testi critici, ma come apparato critico autonomo in cui i fotografi cercano di proporre nuovi modelli di lettura delle regioni indagate per mezzo di una attenzione alle problematiche del territorio, e ai veloci cambiamenti che lo interessano, compresi da una diversa e rinnovata soglia culturale.

Luigi Ghirri

Il Touring Club italiano, ha usato e usa la fotografia come uno strumento diannotazione di viaggio attribuendole un ruolo centrale nella divulgazione della conoscenza del patrimonio artistico ed ambientale. Così, nelle due guide riguardanti l’Emilia Romagna, Luigi Ghirri nel peregrinare per la sua terra, riesce a cogliere l’Emilia da “cartolina” osservandola senza impigliarsi nella denuncia sul disfacimento ambientale e sociale della città contemporanea, senza documentare le brutture che tanto spesso ricorrono nella fotografia di paesaggio.

Nel suo lavoro l’attenzione per l’anonimo, i vari bagni sulla costa adriatica, le vetrine del centro, i bar, ci conducono verso un mondo reale che nellafotografia sembra finto o al massimo kitsch. L’uomo è presente, ma estremamente sfuggente, quasi sempre sulla bicicletta, è sfuocato: una nuvola che attraversa la pianura perdendosi nella nebbia.

Michelangelo Antonioni | Deserto Rosso, 1964

I muri si confondono con i manifesti, e i manichini con le persone. La veduta del porto di Ravenna è un rimando a Deserto Rosso di Antonioni, e le riprese delle cabine di Gabicce ci trasportano in un mondo vero, reso ancora più vero, dalla finzione fotografica.

Fellini | Amarcord, 1973

In queste immagini molto presente è quella malinconia felliniana tipica di questa terra, e il mare visto da un fotografo di Scandiano è quasi sempre in secondo piano rispetto alla spiaggia, oppure è fotografato in inverno, lontano dai clamori estivi, richiamo, forse, ai campi coltivati della pianura padana.

Luigi Ghirri | Atlante Metropolitano

Quaderno Lotus | Atlante Metropolitano

Nel 1988 Luigi Ghirri cura per la Triennale di Milano, Atlante metropolitano che diverrà poi un Quaderno di Lotus. Le 19 fotografie coprono un intervallo di tempo che va dal 1977 al 1989 e vengono utilizzate per illustrare, congiuntamente alle immagini di Giovanni Chiaramonte, Andrea Cavazzuti, Joel Meyerowitz, Klaus Kinold e Wim Wenders, le trasformazioni dell’architettura e delle metropoli.

Tutte le fotografie sono una esplorazione e una conquista dell’identità delle grandi città, attraverso la coscienza dell’occhio. Si tratta di immagini che cercano di abbracciare i luoghi urbani all’interno del villaggio globale. La scomposizione in singoli fotogrammi delle città attraverso l’obiettivo fotografico genera una serie di rimandi e impressioni che servono a formare la nostra idea di città. Le stesse fotografie di Ghirri sono piene di richiami ai grandi autori del passato come Atget e Degas.

Eugene Atget | Coin de la Rue Valette et Pantheon, 1925

Gli influssi sulla sua fotografia sono molteplici, e sembra emergere una particolare riflessione sull’opera di Borges. Lo sguardo attraverso gli specchi in cui i riflessi producendo piccole variazioni di luce determinano la perdita di un centro stabile ci proiettano in una zona fatta di apparenze e illusioni tanto cara all’autore di Finzioni, sembra essere la cifra, la struttura di tutte le immagini scattate da Ghirri, dove ogni fotografia rinvia sempre ad un’altra, creando “un sottile filo che lega autobiografia ed esterno”.

Luigi Ghirri | Ferrara, 1979

Necessario punto di riferimento per questo tipo di fotografia è senz’altro Lee Friedlander che ha approfondito con i suoi “frammenti dispersi” la ricerca sul tema del doppio e sull’ambiguità dell’immagine come traccia della memoria. Come Atget e Evans, ma per vie diverse, Friedlander ha interessato la riflessione di Ghirri, poiché “ha condotto la fotografia a una rilettura del visivo partendo da una estenuazione dei materiali del linguaggio”.

Lee Friedlander | New York City, 1963

I fotografi americani sono stati un punto di riferimento costante per il fotografo emiliano, così come Ugo Mulas, il quale nelle Verifiche si era posto il quesito sul significato del medium fotografico e sull’aspetto linguistico degli strumenti di comunicazione, anche se Ghirri, come sostiene Quintavalle, sceglie di operare “sul racconto, lasciando in secondo piano la questione della lingua […] preferendo operare al livello della narrazione”.

Ugo Mulas | Lucio Fontana

Livello di narrazione che risulta importante anche per comprendere le scelte dell’attrezzatura tecnica di Ghirri, infatti, per quanto riguarda il formato delle fotografie, Ghirri usa il 6 x 7 perché è il punto di equilibrio tra le macchine di grande formato, dove lo sguardo è troppo iperrealistico e in cui si vede tutto e troppo, e il 24 x 36 in cui molto della scena reale viene forzatamente cancellata. Il medio formato riesce a descrivere e suggerire, a nascondere e rivelare, così come l’uso del colore è sempre stato rivolto a quella zona intermedia della gamma cromatica, evitando toni troppo accesi o la violenza dei contrasti.

Luigi Ghirri | Venezia

Luigi Ghirri | Memorie sulla Ljubljanica

Nel 1989 Luigi Ghirri realizza un lavoro sugli interventi di Joze Plecnik a Lubiana.

Plecnik tra il 1920 e il 1935 formulò un piano di ristrutturazione per la città slovena e operò alcuni interventi urbani tra cui quelli lungo il fiume che attraversa la città. Le fotografie analizzano gli interventi lungo il corso del fiume fino alla chiusa. Ancora una volta le immagini di Ghirri non sono una semplice riproduzione e documentazione di architettura, ma un vero e proprio racconto critico che indaga la città.

Il cammino inizia dalla sistemazione della Ljubljanica prima dell’ingresso in città e prosegue con le vedute del ponte di Trnovo e delle opere di sistemazione lungo il percorso della Gradascica, gli alberi sono sempre in primo piano, e il ponte è visto dal basso o è intravisto attraverso le piante. Gli alberi sono i veri protagonisti che nascondono e lasciano intravedere gli interventi architettonici. Nelle intenzioni dell’architetto la Ljubljanica doveva diventare un asse in grado di saldare la città vecchia, attorno al castello, alle più recenti espansioni al di là del fiume. Le fotografie, date le caratteristiche del luogo, raccontano la natura infrastrutturale dei progetti, e l’impossibilità di concepire le opere come unitarie.

Ghirri percorre il lungofiume in tutti i momenti della giornata, scruta gli stessi edifici per carpirne il senso attraverso una luce nuova. Le fotografie abbracciano il fiume, indagandolo ora di scorcio, ora nei dettagli, ora con riprese in primo piano. Si muove di notte e di giorno, nella città abitata e deserta, e cerca di afferrare la natura del luogo soprattutto per mezzo delle ombre e della luce artificiale. Preferisce le riprese notturne e i riflessi dei lampioni che rendono aleatori e privi di contorni gli edifici, e in cui la vegetazione risalta, quasi a voler rivelare la stratificazione storica di rapporti spesso svincolati da ogni regola e da ogni congruenza.

In questo cammino tutti gli edifici concorrono al racconto della città, e la luce diventa l’elemento essenziale della narrazione. Infatti, le fotografie sono costruite per mezzo dell’ombra riflessa dalle luce dei lampioni che rende meno pesanti le imponenti facciate dei palazzi. L’osservazione notturna dell’area dei tre ponti, con gli alberi in primo piano, come le immagini della scuola Gerber in cui alla veduta della scuola presso il conservatorio e contrapposto il disegno del lampione, fanno sì che proprio i lampioni siano il punctum della fotografia.

Il ponte dei Calzolai è considerato sia nella sua funzione specifica, sia comeluogo di meditazione, sia come un segno forte della città, così come i due ponti che seguono.

L’architettura di Lubiana diventa un’architettura leggera rivelando così altre sfaccettature e immagini dimenticate nella memoria dell’autore.

Ritorna così il concetto di memoria sempre molto presente nel lavoro di Ghirri:

“non la memoria che stabilizza il ricordo in una logica precisa, ma il preciso impreciso del ricordo“.

Il ricordo è profondamente legato alla luce, in quanto se l’imprecisione del ricordo dilegua, rimane l’uso della luce come regola unificante su cui trascrivere le proprie impressioni e lasciare le proprie impronte.

Deserto Rosa

Deserto Rosa è il film con cui Elisabetta Sgarbi ha voluto omaggiare il fotografo Luigi Ghirri.

Il titolo fa il verso a Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni con cui forse la Sgarbi ha la pretesa di condividere alcune tematiche insite nella cinematografia del grande regista ferrarese. L’incomunicabilità, l’alienazione, il silenzio sono annacquati già dal titolo. Deserto Rosa è un film tenue, scialbo, senza mordente nel quale l’unica nota postiva è aver portato alla ribalta il nome di Luigi Ghirri, un fotografo mai troppo rimpianto, le cui fotografie sono poesie minimaliste, haiku appena accennati che aprono nello spettatore luoghi e mondi nascosti.

Elisabetta Sgarbi | Deserto Rosa

La sovrapposizione di immagini rende questo mediometraggio una prova di video-arte che non si concilia con le immagini aleatorie e leggere di Luigi Ghirri. L’uso della dissolvenza è il filo conduttore per ricreare lo spirito cercato dal fotografo emiliano nel suo intento di realizzare una casa delle stagioni a Roncocesi dove allestire mostre a seconda dell’alternarsi della primavera, dell’estate, dell’autunno e dell’inverno in modo da trovare una forte relazione tra la natura e il suo tempo (atmosferico e cronologico) e il tempo dell’arte (immobile eppure sempre diverso).

La telecamera così alterna immagini delle stagioni che cambiano raccontate da Alexsandr Sokurov con le imamgini di Ghirri che narrano la ciclicità del tempo sospeso tra una luce abbacinante del mare adriatico e la terra arata sospesa nella nebbia padana.

Luigi Ghirri, Lido di Spina, 1974

Deserto Rosa è un film pretenzioso, carico di intellettualismi che mal si combinano con la ricerca di atmosfere e colori proprie di Luigi Ghirri. E’ un film rumoroso, in cui le voci fuori campo sono voci stonate, le musiche di sottofondo di Franco Battiato non si conciliano con il racconto in punta di piedi di fotografie che narrano soprattutto quello che non si vede.

Fotografie silenziose che riempiono gli spazi vuoti dell’esistente, che non cercano sensazionalismi, frutto di un tempo lungo, meditato, che nella fissità dello sguardo ricerca quella pulizia del vedere che in tanti scritti ha teorizzato lo stesso Luigi Ghirri.

Un modo di vedere che il film della Sgarbi lascia trasparire ma che non percepisce fino in fondo, troppo occupata in una narcisistica ossessione di mostrare i propri viaggi mentali senza osservare fino in fondo il profilo delle nuvole.

Luigi Ghirri | Portrait

Luigi Ghirri | Il fotografo senza qualita’

L’idea della fotografia come inesauribile possibilità d’espressione e come formidabile linguaggio visivo ha permesso a Luigi Ghirri di non fossilizzarsi sugli stessi elementi, ma di rivolgere la propria attenzione su una enorme quantità di soggetti, cercando di trovare “all’interno della geometria e della fissità dello spazio della camera oscura, la misura della rappresentazione dell’esterno”.

Luigi Ghirri e la sua formazione

Piero della Francesca, Resurrezione, Borgo S. Sepolcro, 1450–63

Rappresentazione dell’esterno che diventa occasione di riflessione sui problemi lasciati aperti dalla tradizione pittorica e fotografica a cui variamente si richiama, da Guardi a Bellotto, da Piero della Francesca al Beato Angelico, da Breugel a Hopper a Frank. La sua formazione culturale muove dalle ricerche fotografiche di Tymothy O’Sullivan, e approda alla fenomenologia di Husserl e Merleu Ponty, prende le mosse dalla fotografia americana degli anni ’60 e dalla Beat Generation, dalla cinematografia neorealista e dai film di Antonioni e Fellini, lambendo alcuni aspetti della cultura pop e delle ricerche dei Nuovi Topografi, in particolare William Eggleston, anche se forse l’interesse di Ghirri per certi aspetti del reale viene prima.

William Eggleston | Memphis, 1969

Ma è lo stesso Ghirri a sottolineare con le parole di Bob Dylan , un autore importante per la conoscenza del suo lavoro, il problema delle influenze, della priorità, e dell’originalità della sua opera: “Non so dirvi chi mi ha influenzato perché sono troppi da nominare e potrei lasciarne fuori qualcuno…apri gli occhi e le orecchie e vieni influenzato e non ci puoi far niente”.

Bob Dylan | Live at the Newport folk Festival, 1964

Ambiguità dell’immagine

Il lavoro di Luigi Ghirri, è un lavoro soprattutto sul vedere e sulla memoria, tale da “attivare nuove strategie di rappresentazione, che tengano conto del mondo esterno e dei mondi interni, del fotografo e dell’osservatore”. Con le sue fotografie compie una riflessione sull’ambiguità delle strutture dell’immagine andando alla ricerca di una visione pura, un istante zero della fotografia in grado ancora di stupire il fotografo, in modo che, lo sguardo sul mondo sia la prosecuzione di uno sguardo interiore, in cui il ricordo/nostalgia è la traccia per non dimenticarlo, per capirlo o semplicemente per riscoprirlo e rivederlo.

Gli spazi che descrive Luigi Ghirri, hanno forme e colori diversi, e tuttavia sembrano uguali in tutti i luoghi , vuoti spazi invisibili entro i quali vive la possibilità della realtà. Le sue fotografie attualizzano l’originale, conferendogli nuovo senso, e acquisiscono una vita che li rende indipendenti dal modello. La rappresentazione del mondo risolta in immagini non consiste in un semplice trasferimento, ma in un’operazione di selezione e di rapporti pertinenti.

Il senso della realtà e della possibilità

Robert Musil | L’uomo senza qualità

Luigi Ghirri è il fotografo senza qualità, nelle sue immagini, come nel romanzo di Robert Musil, non si percepisce il senso della realtà ma il senso della possibilità in quanto le sue fotografie sono realtà non ancora nate, sono la capacità di pensare a tutto quello che potrebbe ugualmente essere, dando la stessa importanza a quello che è ,ma anche a quello che non è. E’ la realtà che suscita le possibilità. Per lui nulla è saldo, tutto è trasformabile, ogni sua osservazione è un’osservazione parziale, ognuna delle sue fotografie è soltanto un punto di vista, di ogni cosa non gli preme sapere che cos’è, ma solo di scoprire un secondario com’è.

Luigi Ghirri, Argine Agosta Comacchio, 1989

L’essenziale per il fotografo Luigi Ghirri accade nelle immagini. L’irrilevante nella realtà.

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